di Pasquale Hamel
Per quanto rimane dei miei ricordi d’infanzia, il vento di scirocco, che spesso soffia furioso dal mare in su la spianata di Carricacina investendo la piazza Umberto a Realmonte, non era mai riuscito dissuadere don Ciccino Sicaretta.
Così era inteso dalla gente, a causa delle sue consuete e curiose passeggiate che lo impegnavano in ore in cui normalmente nessuno si avventurava fuori dalla porta di casa.
Bisognava allora vederlo, ed io lo vedevo dall’alto della terrazza del palazzetto di mia nonna, l’omino. Investito dalle folate calde, tutto stretto in se stesso mentre avanzava con sforzi inimmaginabili cercando di mantenere quella nobiltà di portamento che madre natura, particolarmente crudele nei suoi confronti, gli aveva in gran parte negato.
Don Ciccino era, infatti, piccino in ogni senso. Al suo confronto il suo adorato re Vittorio, a cui per ragioni di casta diceva di essere particolarmente devoto, appariva, il che è tutto dire, quasi un gigante. Fisicamente, era uno stecco, o una “sigaretta”: proprio una canna che tuttavia sembrava non avere radici.
Elegante per come lo poteva essere un nobile decaduto, portava un vecchio doppiopetto scuro con il candido e sfilacciato fazzolettino bianco nella pochette. Le sue scarpe, un po’ sformate e sulle quali in casa si affannava con creme d’ogni genere, erano così lucide da potercisi specchiare come fosse l’acqua di Scala dei Turchi
Tutto lustro e ben messo che, come diceva la gente, sembrava si stesse andando a “maritare”, arrancava impavido per almeno un’ora prima di chiudersi nella vecchia casa di famiglia.
Era un mistero di come, avanzando controvento, si reggesse in piedi senz’essere travolto. Un mistero che, a noi bambini incuriositi, ci veniva svelato con le solite dicerie facili a correre in un piccolo borgo come Montereale. In qualche modo, erano le “bufale” d’allora, o per meglio dire le “bufale” d’infanzia.
Si diceva che don Ciccino Sicaretta, secco proprio come una sigaretta, prima d’uscir dalla sua abitazione riempisse le sue tasche di pesanti “giache” (sassi), necessarie per trattenerlo a terra. Solo così sarebbe stato in grado di restare piantato, evitando di volare nelle giornate di scirocco o libeccio. D’altronde, allora non esistevano molti aerei a reazione che volavano nel cielo e quindi le scie chimiche non andavano ancora in voga. Tantomeno le bufale per grandi e piccini si propagavano via internet. Erano invece propagate con il passaparola e con una fantasia che non aveva a disposizione nemmeno i più rudimentali fotomontaggi.
L’originale personaggio di cui ho scritto, purtroppo non ebbe vita lunga. La morte lo colse infatti che non aveva ancora compiuto i quarant’anni. Fatto curioso, alla sua morte, qualcuno cercò le famose “giache” ma senza molta fortuna. Forse erano finite nella cassa nella quale era stato composto l’esile ed austero corpo? Probabilmente non lo sapremo mai.
Ma non è particolarmente difficile distinguere tra bufale, esagerazioni, dicerie per i bambini e storie vere, allora come oggi. Tutto sta a volerlo fare.
In copertina, la Scala dei Turchi in estate. Foto di Giusi Andolina.