La presentazione del nuovo romanzo di Chiara Gamberale a Palermo
di Anna Fici
Il sole era caldo. Ma non troppo. C’era un certo venticello. Ma non era troppo. L’azzurro del cielo era sì azzurro. Ma di una gradazione mite. C’era già aria di vacanza. Ma non troppo. Insomma, si profilava un pomeriggio perfetto per il dolce far nulla in città: una passeggiata, un gelato, due chiacchiere… E mentre tutti apprezzavano il non troppo di una perfetta primavera che per una volta corrisponde al suo dover essere stagione di mezzo, una folata di voci in preghiera rompeva il traffico di Piazza Massimo. Ma non era un coro troppo nutrito: una processione del giovedì Santo che la fece uscire in strada, in attesa che la presentazione del suo ultimo libro cominciasse e che la fece tornar dentro con un sorriso curioso, richiamata dal suo ospite: “Chiara, allora, che ne dici? Cominciamo?”.
Ieri pomeriggio Chiara Gamberale, accettando l’invito de La Feltrinelli di Palermo, al Rouge et noir si è intrattenuta con il pubblico dei suoi lettori, chiacchierando di “Qualcosa”.
Questo il curioso titolo del suo ultimo romanzo (Longanesi, 2017), che ha come protagonista la giovane principessa “Qualcosa di troppo” e che si presenta in una veste nuova: quella di una favola per adulti che però potrebbe rappresentare un’ottima fonte di educazione sentimentale anche per giovani uomini e giovani donne in formazione.
Ad aprire le danze, accanto a lei, lo scrittore Gian Mauro Costa che ne ha illustrato la produzione a partire dal 1999. Chiara è oggi una giovane donna, appena quarantenne, che ha iniziato a scrivere molto presto: “Una vita sottile” fu il suo esordio sul tema dell’anoressia.
A questo primo libro ne sono seguiti molti altri all’interno dei quali ha sempre seguito il fil rouge della ricerca di sé attraverso le relazioni, i rapporti familiari, l’amore. Ma mentre i primi romanzi hanno tenuto ben a fuoco le relazioni più intime come contraltare della costruzione di sé, tenendo presente ma sfocato il mondo, (come ad esempio in “La zona cieca”, Bompiani, 2008), quest’ultima favola rompe la tradizionale tessitura delle storie parallele ma tutte raccontate nella loro problematica intimità (come nel seducente “Le luci nelle case degli altri, Mondadori, 2010), ed entra in una dimensione più sociologica: coglie cioè il problema del mondo contemporaneo che ha la caratteristica di presentarsi come sistematica distrazione dall’essere e che ci rende bulimici di cose da fare.
I contenuti della mente sono completamente assorbiti dal fare e dalle attività per organizzarlo, pianificarlo e mostrarlo attraverso gli specchi tecnologici di “Smorfialibro”. Nessuno pensa più le idee. La nostra è una società in un non c’è lo spazio culturale per l’ideazione e chi si ferma a giocare con le forme delle nuvole è trattato da pazzo e da reietto. Il “bisogno” di volere qualcosa non è semplice desiderio ma dipendenza mascherata.
I tipi umani che nel libro incarnano i pretendenti della principessina “Qualcosa di troppo”, come idealtipi sociologicamente ben costruiti, raccontano le tante patologie dell’oggi, appunto, le dipendenze mascherate. Innanzi tutto il “buffo” come giostra dell’anima, incapace di specchiarsi ed accogliere il patetico che c’è nel “bisogno” di divertimento inteso come “divertere”, vertere altrove lo sguardo.
Il compiacimento del malessere esistenziale; l’ostentata insicurezza che fa personaggio, che ci rende parassiti ipercoccolati da chi sente il bisogno di salvare qualcuno per salvarsi dall’incapacità di stare con sé. La militanza come forma di esistenza destinata a trovare senso solo nell’opposizione e che proprio per questo non vuole risolverla veramente; la militanza a cui un mondo giusto farebbe terrore. L’eccentricità artistica che abusa sistematicamente dell’arte e degli altri per puro egocentrismo, capricciosità e ricerca di facili applausi, di adrenalina a basso costo…
La nostalgia di “niente” che si impossessa della principessa dopo ogni innamoramento, vissuto come bulimico bisogno di senso, è nostalgia per il puro essere dei bambini che si svegliano spontaneamente gioiosi e curiosi verso il nuovo giorno. E’ nostalgia verso quelle pause che danno valore alla musica e che le suonano insieme. Ma i “ragazzi abbastanza” non rappresentano un possibile equilibrio, un equilibrio positivo. Diventare una “ragazza abbastanza” non è una soluzione.
In un mondo di sofferenze bipolari, di pieni troppo pieni e vuoti troppo vuoti, gli “abbastanza” sono i soggetti dotati di maggiore capacità adattiva ma certo non invidiabili per l’autrice. Perché chi è troppo non può dimenticarlo, non può semplificarsi senza violentarsi, ma può trovare una strada per interpretare la propria natura: per Chiara questa strada è indubbiamente il cammino della scrittura, che l’ha resa capace di analisi psicologiche di spessore, di diagnosi sociologiche centrate, di terapie fantasiose come quella messa in atto in “Per dieci minuti” (Feltrinelli, 2013) dove ci si obbliga a fare ogni giorno per dieci minuti qualcosa di inedito.
Dispiace che la sua scrittura venga considerata adatta ad una frequentazione prettamente femminile. Non perché forse non possa esistere una visione più femminile delle cose del mondo, e non perché forse lei non ne sia una portatrice sana. Ma perché non esiste approccio femminile che non parli del maschile e dell’umanità tout court. E se lo fa con spessore è comunque arte di tutti. Forse sarebbe auspicabile una correzione di tiro per la comunicazione che ruota intorno alla sua produzione. Che d’altra parte è variegata e presenta anche qualche collaborazione con il maschile come in “Avrò cura di te”, scritto a quattro mani insieme a Massimo Gramellini (Longanesi, 2014) o quest’ultimo le cui illustrazioni – parte integrante della narrazione – sono a cura del disegnatore Tuono Pettinato.
L’incontro di ieri, felicemente intervallato dall’arpa di Lucia Clementi, ha avuto un tenore molto informale che tra il pubblico ha ricevuto numerosi apprezzamenti. Anche la scelta di portare la presentazione fuori dalle pareti istituzionali della libreria, in un luogo estremamente centrale e dalle porte aperte, dove tutto indica apertura e semplicità, ha decisamente pagato.