di Anna Fici
Venticinque anni fa, quel 27 marzo 1992, una cosa è certa: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, seduti allo stesso tavolo l’uno accanto all’altro e a poche settimane dalla loro morte, si sono sorrisi. Si sono messi a scherzare come sanno fare gli uomini.
Anche “sotto un cielo di ferro e di gesso l’uomo riesce ad amare lo stesso” (Lucio Dalla, Balla balla ballerino, 1980). E riesce a ridere e a manifestare le peculiarità della propria natura tendente sempre all’adattamento. Erano lì per confortare un amico, il giudice Giuseppe Ayala, che aveva deciso di candidarsi alle elezioni politiche con il partito repubblicano. Pesci fuor d’acqua, forse un po’ complici nel comune imbarazzo oltre che per l’intera vita, personale e professionale, trascorsa da buoni “vicini”. Nessuno notò nulla, nel fluire della vita. Quel sorriso, così denso di senso oggi, accadde, fiorì e sfiori dei loro volti. Durante uno dei tanti incontri pubblici a cui erano soliti partecipare.
Un giovane fotografo, che fotografava da soli quattro anni ma già collaborava con l’agenzia Reuters e con il Giornale di Sicilia, forse intuì già dai primi momenti di chiacchiera tra i due magistrati che qualcosa di insolito stava per manifestarsi. Intuì che l’atmosfera di circostanza sarebbe stata rotta da qualcosa di più caldo: un sorriso vero tra due veri amici. E lo inseguì scattando quattro fotogrammi fino a che lo colse. Si chiamava Tony Gentile.
Come lui stesso ha raccontato in più occasioni, il valore di quella foto non fu colto da nessuno in un primo momento. E la foto fu “resuscitata” più tardi grazie alla sensibilità del collega di Tony, Mike Palazzotto. Che dopo la seconda strage, quella di Paolo Borsellino, si ricordò di quel fotogramma ed invitò Tony a riproporlo. Di lì a poco sarebbe diventata un’immagine fuori controllo, un’icona popolare a tutti gli effetti.
Con grande modestia l’autore ha voluto sottolineare che solo i tragici eventi successivi allo scatto hanno trasformato una normale fotografia in una fotografia autoriale, in un simbolo della resistenza degli uomini di buona volontà alla metastasi mafiosa. Ha voluto inoltre ricordare la presenza di tanti altri colleghi che nella stessa circostanza hanno sicuramente scattato foto simili.
L’uso che negli ultimi venticinque anni è stato fatto di quei sorrisi è sfuggito alle regole del diritto d’autore. La spontanea appropriazione della collettività ha reso l’immagine virale, come si direbbe oggi. Non sempre le associazioni antimafia, costituitesi intorno al valore della legalità, hanno percepito la negazione del diritto d’autore nell’utilizzare questa immagine. E non si può non notare la contraddizione.
Tuttavia non è questo che desidero sia il focus del mio intervento. Vorrei piuttosto utilizzare questo spazio per avviare una riflessione sull’autorialità oggi e sul diritto che ne scaturisce, non tanto in termini legali quanto in senso sostanziale. Nel senso del sentito riconoscimento di una capacità unica rivelata dalle immagini fotografiche. A questo proposito…
Henri Cartier-Bresson ha inaugurato un approccio alla professione del fotografo che poi ha avuto una vasta eco. E che ha impregnato di sé l’agenzia Magnum da lui fondata nel 1947, insieme ad alcuni illustri colleghi quali Robert Capa, George Rodger, David ‘Chim’ Seymour e William Vandivert. Scopo della costituzione della Magnum era la tutela del lavoro dei suoi membri, la protezione delle immagini prodotte, il pieno controllo sulla loro diffusione.
Se già alla metà del secolo scorso grandi professionisti come loro hanno sentito l’esigenza di creare una agenzia con questa finalità è perché la fotografia ha sempre subito l’etichetta di “facile, meccanica registrazione dell’evidenza”. E come tale non le è stato attribuito un sufficiente valore culturale.
Contrapponendosi a questa visione Bresson ha esposto in più occasioni la teoria del momento decisivo, ovvero che la fotografia rappresenterebbe l’acme della situazione e che la capacità di riconoscerlo e coglierlo abbia a che fare con l’intera persona del fotografo: con la sua mente, più o meno coltivata e con il suo cuore, più o meno sensibile.
Il fotografo dunque sarebbe un vero scrittore, assimilabile a volte ad un poeta, altre a un narratore in prosa o a un giornalista, che usa la “penna fotografica” per produrre istanti colti nel momento e nel modo in cui significano qualcosa che trascende il singolo istante ed esprime invece una tipicità che la collettività sa riconoscere. La capacità di riconoscere e talvolta prevedere l’allineamento perfetto tra contenuto e forma, tra soggetto, luce e inquadratura, è l’Arte insita in questa professione.
Nella fase che stiamo attraversando, di opulenza visiva, di globalizzazione dell’immaginario, di precarietà cronica, di mutamento senza direzione (e che, in quanto tale, non è più definibile progresso) come si può cogliere il momento decisivo che una volta ci si presentava come rottura dell’ordinario? Poteva trattarsi di un piccolo strappo e di una grande lesione: di qualcosa che si mette improvvisamente in movimento rendendo una situazione di vita quotidiana più interessante o del salto disperato di un soldato al fronte.
Anche negli usi che la cosiddetta “gente comune” faceva della fotografia vi era un immortalare l’eccezionale, ciò che si differenziava dalle routine quotidiane: feste, cerimonie e vacanze. Ma in un presente fratturato, di progetti ridotti in schegge e polvere dalla precarietà cronica, come si può esercitare una qualche selettività sul tempo? Senza una direzione prefigurata, cosa è significativo?
La risposta della fotografia contemporanea è frequentemente quella di costruire un evento, tematizzarlo e proporlo. Nel flusso degli accadimenti, distratti dall’informazione di massa, non sempre noi cittadini riusciamo a cogliere l’importanza di alcuni eventi, la rilevanza di alcune problematiche. Ed è quindi un bene che fotografi, scrittori, artisti… richiamino la nostra attenzione. Ma…
Ma la costruzione di senso della fotografia oggi spesso travalica l’immagine fotografica. Molti progetti che poi diventano mostre o libri prendono valore in virtù del valore culturale del progetto, dell’idea che vi sta alla base, della cornice istituzionale o in senso lato culturale entro la quale ce ne viene proposta la fruizione. E mancano invece dello specifico della fotografia: il coagulo visivo di un senso che riesce ad essere colto dal suo pubblico perché proponendo un’emozione intercetta un comune sentire e permette un riconoscimento.
Solo pochi ancora sono capaci di tuffarsi nella complessità del nostro tempo ed aspettare con cultura ed esperienza un qualche momento decisivo. Tony Gentile ha colto il preludio di un grande strappo, la quiete prima della tempesta. E vi è riuscito perché era là con l’attenzione di un Autore.
Che, in fotografia, è chi sa incontrare la realtà con la propria sensibilità. E vi è riuscito così bene, è stato così Autore, da produrre “una foto senza autore”, una “foto di tutti”. Epocale. In quella foto, la società civile si è specchiata così bene da considerarla propria. Ed è questo il ruolo della grande Fotografia.
Perché la fotografia non “scrive” solo del mondo, ma con il mondo. E il mondo, da coautore, talvolta se ne appropria, con qualche effetto perverso sulla sopravvivenza dei fotografi che però sapranno di essere riusciti a comunicare veramente.
In copertina e nel testo, i provini della famosa foto di Tony Gentile su Falcone e Borsellino. Uno speciale ringraziamento da parte di tutta la redazione di Maredolce a Tony Gentile e Giuseppe Prode per aver reso disponibile questa straordinaria serie di foto.
Foto di Henri Cartier-Bresson nel testo, tratta da Wikipedia. Par Rolph31000 — Travail personnel, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54151457