di Laura Nobile
«Non esistono limitazioni nella voglia di scoprire nuovi mondi e così mi sono trovato catapultato, letteralmente catapultato, in un pianeta a me sconosciuto. Non che io non amassi il jazz, l’ho ascoltato abbastanza, ma non tanto da affrontare un percorso come cantante. È per me qualcosa di veramente straordinario, non avrei mai immaginato che a 66 anni potessi lanciarmi in un simile progetto, e vi ringrazio per la fiducia che mi accordate».
È davvero qualcosa di fuori dall’ordinario il concerto di una delle figure più rappresentative della napoletanità, Massimo Ranieri, che qualche giorno fa ha presentato al teatro Metropolitan di Catania (1700 posti quasi tutti esauriti) con l’organizzazione di “Puntoeacapo” di Nuccio La Ferlita“Malia”, l’esito di un progetto musicale che ha portato alla pubblicazione di due CD, uno nel 2015 “Malia. Napoli 1950-1960”, l’altro nel dicembre 2016 “Malia. Parte seconda”.
Eccolo Massimo Ranieri, in scena, a misurarsi con la nazionale del Jazz: Enrico Rava (tromba e flicorno), decano del jazz italiano, il nostro jazzman più famoso all’estero di cui ci piace ricordare il suo recente omaggio a Michael Jackson, inciso con la prestigiosa etichetta tedesca ECM; Stefano Di Battista (sassofoni), cresciuto alla scuola di Michel Petrucciani, Elvin Jones e altri big; Rita Marcotulli (pianoforte), pianista con innamoramenti per il pop a fianco di Pino Daniele; poi Riccardo Fioravanti (contrabasso) e Stefano Bagnoli (batteria), entrambi poliedrici musicisti dalle innumerevoli collaborazioni pop e jazz con artisti nazionali e internazionali come Ennio Morricone, Amij Stewart, Fabrizio Bosso e Sarah Jane Morris.
Ranieri racconta del jazz come di una “malia” che gli si è versata nel cuore, grazie anche alla “folle” proposta del produttore Mauro Pagani,e ricorda come da ragazzino, a soli diciassette anni, rimanesse folgorato dall’esibizione a Sanremo 1968 del grande jazzista statunitense Lionel Hampton, entrato in scena dopo di lui, di come quella volta,entusiasta, avesse cercato di raggiungerlo per stringergli la mano senza riuscirci. Quell’incontro, però, era solo rimandato e avvenne 20 anni dopo: «Ero emozionatissimo – dice Ranieri- ma lui riuscì a farmi emozionare ancora di più con queste precise parole che ricordo ancora come fosse oggi: “I remember you, you were in Sanremo in 1968”: pensate s’era ricordato di me! E questa è un’ulteriore dimostrazione che solo i grandissimi sanno essere così generosi».
La scaletta del concerto ha proposto i brani incisi nei due CD, alternando quelli con una vena più intimista a quelli con un ritmo più vivace che hanno maggiormente coinvolto il pubblico, verso il quale Ranieri ha rivolto più volte il microfono, dando voce alla loro gran voglia di cantare con lui i classici napoletani.
In questa sorprendente avventura musicale c’è al centro la Napoli “caprese”, quella che negli anni Cinquanta e Sessanta attraeva e seduceva nell’intimità dei night e dei piano bar, ammiccando fantasia e libertà dalla musica americana di quegli anni, quella che vide come suo corifeo Renato Carosone e la sua band con brani, sapientemente arrangiati da Mauro Pagani con il contributo di tutti i musicisti, come Tu vuo’ fa’ l’americano, ‘O Sarracino, Giacca Rossa ‘e russetto, Torero.
E poi tanto spazio alle canzoni d’amore, e qui in mezzo a brani classici della canzone napoletana come Accarezzame, Malatia, Luna caprese, Indifferentemente, Malafemmena, a farla da padrone è Domenico Modugno con Resta cu’mme, Strada ‘nfosa, Musetto; c’è spazio anche per uno che quegli anni “capresi” li ha saputi raccontare bene, Fred Bongusto con la sua Doce doce.
Ranieri ha, poi, voluto regalare al suo pubblico due brani degli anni ’80, omaggiando due autori napoletani moderni, Teresa De Sio e Pino Daniele con Aumm aumm, Tutta n’ata storia e concludendo col brano che forse più lo identifica, accolto da un vero e proprio boato del pubblico, Perdere l’amore.
Due stili musicali agli antipodi che però appaiono in qualche modo conciliati, anche se l’avventura del jazz nei territori del pop spesso nasconde qualche insidia: forse mostri sacri del jazz come Rava e gli altri potevano essere lasciati ancora più liberi di parlare il loro linguaggio che si nutre di “anarchia” e improvvisazione.