di Gabriele Bonafede
Una pièce storica, in tutti i sensi, e cioè Nel nome del padre di Luigi Lunari, è al Teatro Biondo di Palermo in questi giorni. Lungamente applaudita nella prima di ieri alla sala Strehler è anche qui un aggancio alla storia del teatro contemporaneo, visto che Lunari lavorò a lungo con Strehler.
Nella versione a regia Alfio Scuderi con Paolo Briguglia e Silvia Ajelli, sbarca dunque a Palermo, capitale di confine più che di cultura, in un momento particolare della psiche storico-politica europea e mondiale.
Quella della profonda riflessione su insegnamenti, miti, errori e successi di padri ideologici teoricamente estinti ma in effetti sempre presenti. Ovvero, la riflessione su un mondo che cerca di liberarsi dei propri “padri politici” con l’insito rischio di perderne l’eredità intellettuale e allo stesso tempo la possibilità di superarla o quanto meno rivelarla.
La pièce è più che nota a chi si occupa di teatro. Se n’è scritto tanto e, come altre opere di Lunari, è stata largamente rappresentata e apprezzata nel mondo, tradotta e ammirata a molte latitudini di una terra tonda che oggi rischia d’essere percepita come irrimediabilmente piatta. Meno rappresentata in un’Italia che caccia via l’intelletto ogni anno di più.
Confrontarsi con i temi storici di grande portata e con la grandezza di questo testo presenta aspetti facili come difficili. Alfio Scuderi, oltre a raccogliere la sfida, dimostra di comunicare tutti o gran parte dei temi sul tappeto, da quelli più intimi a quelli più storici, che fanno di Nel nome del padre uno dei testi più importanti e riusciti del teatro italiano contemporaneo.
Il merito, ça va sans dire, è anche e soprattutto dei due attori protagonisti che, oltre a indentificarsi persino fisicamente nei personaggi, sottolineano ogni passaggio con l’accattivante arte del palcoscenico.
Partendo dall’intimo rapporto con padri dalla personalità troppo forte e particolarmente colpevoli nel sopprimere la presenza stessa dei figli, Aldo e Rosemary si trovano in un limbo post-morte, una specie di purgatorio, dove s’impegnano a sondare i propri ricordi e la propria psiche di bambini abbandonati per arrivare a una catartica risoluzione dell’esistenza.
Il fatto è che il loro padri sono personaggi importanti della storia, troppo impegnati nella loro “missione” politica per occuparsi dei figli. Cattivi, cattivissimi padri, anche laddove potrebbe esserci una giustificazione nell’impegno sociale. Ed è l’intreccio tra psiche personale e collettiva che sta alla base di un’interpretazione contemporanea: anche qui la ricerca di un equilibrio tra le due parti è a vanto della regia di Scuderi. Tanto più che, politicamente parlando, il padre di Aldo è profondamente diverso dal padre di Rosemary. Ma questo non esclude una serie di punti in comune tra i due personaggi, e non solo dal punto di vista della comune tragedia di abbandonati (o peggio) che ne distrugge irrimediabilmente la vita personale.
Dal freddo moscovita in una vita nascosta alla realtà, e segnata dalla mostruosa finzione dello stalinismo, all’ipocrita pudicizia di un cattolicesimo di facciata per arrivare al potere il percorso è più breve di quanto si pensi. Lo spettatore può dunque scoprirlo insieme al testo e all’azione, permeando le proprie esperienze in un ciclo continuo ed evolutivo: cresce l’interesse, anche per capire chi sono i padri, oltre ai figli. Chi sono loro in scena e chi noi nella scena.
Paolo Briguglia, nel rappresentare Aldo, conduce il dramma e il gioco con tale compenetrazione da far aleggiare i fantasmi più nascosti tanto nella psiche personale quanto nella psiche storico-collettiva evocata. Ma non potrebbe sbalzare tutto questo se Silvia Ajelli non recitasse Rosemary con altrettanto valore scenico e comunicativo. Alla base c’è uno studio di regia che lancia le capacità e l’esperienza dell’attore e dell’attrice.
Tanto più che la regia di Alfio Scuderi evita il finale del testo originario: una “presa di posizione”, se vogliamo, dichiaratamente intesa ad aprire all’oggi e al domani la componente politica della pièce affermando al contempo quella intima.
In questo senso è una sperimentazione che potrebbe avere una collocazione persino dirompente: tratta il testo svernandone la conclusione amata dal padre stesso del testo. In qualche modo, consapevolmente o meno, fa così una scelta catartica simile a quella dei suoi stessi personaggi. Scelta coraggiosa che potrebbe avere un seguito.
Senz’altro da vedere, o rivedere, Nel nome del padre in questa versione “speciale” al Teatro Biondo di Palermo conferma un’attualità valida in qualsiasi tempo e ancor più nel nostro tempo: come tutte le grandi opere teatrali. Soprattutto quando sono azzeccate nel quadro geografico e temporale di riferimento. Ovvero, in un mondo che non può superare e nemmeno capire, tantomeno commiserare o uccidere i propri padri a meno che non riesca a rileggerli soprattutto nel “cuore della periferia”: la Palermo “capitale” della cultura a confine.
Le scene, firmate dallo stesso Scuderi, includono una scultura di Marcello Chiarenza. Repliche fino al 25 marzo.
Foto di Rabih Bouallegue.