di Benni Galifi
In questa nostra epoca di “carnevalizzazione totale della vita” (U. Eco), nonostante si perpetuino i festeggiamenti qua e là in tutta la penisola, il carnevale sembra aver smarrito la memoria delle sue antiche origini, il suo valore intrinseco e la consapevolezza dei significati e dei simboli dei quali si avvale. Connesso, solo in apparenza, al calendario liturgico, si pone in mezzo al Capodanno e alla Quaresima. A dirla tutta, di tale ricorrenza – retaggio pagano dall’antica Roma – la Chiesa, non riuscendo a disfarsi, dovette ammettere gli eccessi e la licenziosità dei travestimenti e delle maschere, delle messe in scena e dell’abbondanza di cibo, incastrandoli forzatamente in un’ottica religiosa che concedeva al popolo di darsi alla “pazza” gioia prima dei lunghi e penitenti quaranta giorni quaresimali.
Di fatto la Quaresima, un tempo, alla stregua del Ramadan osservato dall’Islam, prevedeva una categorica astensione dal cibo e dai divertimenti: tale netta cesura tra abbondanza carnascialesca e privazione quaresimale ci viene illustrata da Pieter Brueghel il Vecchio nel Combattimento fra Carnevale e Quaresima: una lotta simbolica tra il Carnevale – uomo grasso a cavallo di un barile, “munito” di uno spiedo cui è infilzata la testa di un maiale – e una donna magra, “armata” di una pala di legno al cui estremo poggiano due grame aringhe, allegoria della Quaresima.
La stessa etimologia più condivisa del termine carnevale, carnes levare (“togliere le carni”), come ebbe a notare Clemente Merlo, «sottolinea non l’idea del godimento che solitamente vi associamo, ma quella della privazione che ne sarebbe seguita» (Marcella Croce, Le stagioni del sacro).
A questo punto sarà opportuno domandarci: da dove nasce il Carnevale? L’espressione latina semel in anno licet insanire, “è lecito impazzire almeno una volta l’anno”, sembra fornirci una prima risposta. Gli antichi romani, infatti, ben sapevano che, per tenere a bada il popolo, era necessario offrire, durante l’anno, momenti di distrazione e occasioni ludiche nelle quali gli istinti repressi e i malcontenti avrebbero potuto trovare sfogo.
La festa, dunque, si rivelava il miglior strumento attraverso il quale l’illecito potesse essere ammesso e legittimato, in un gioco di ruolo che prevedeva l’inversione dell’ordine sociale: ce ne offrono un esempio i Saturnalia, festeggiamenti dicembrini in onore del dio Saturno. Durante la settimana di festa, detta altresì libertas decembris, “della libertà di dicembre”, «non ci sarà distinzione fra liberto e schiavo, fra servo e padrone: vigerà l’uguaglianza, come nel tempo antico e felice del dio Saturno. O addirittura tutto apparirà capovolto e in ogni casa saranno i servi ad esercitare il comando, verranno persino serviti a tavola dai loro padroni, potranno dire e fare in libertà» (L.Monteleone, Miti romani).
Il rito, nel suo incarnare il simbolico ritorno all’età aurea del dio Saturno, prevede altresì l’elezione di un Rex Saturnaliorum – re burla eletto dai Romani e invitato a governare sulla confusione più totale – il quale, alla stregua del re del Carnevale medievale e del corrispondente nannu siciliano, diviene emblema della dicotomia caos vs cosmo. Non a caso, in diversi centri della Sicilia, il nannu, il “nonno”, fantoccio di paglia al quale viene fatta indossare una mostruosa maschera di plastica, a seguito di una pantomima che ne simula il funerale, con tanto di veglia e corteo funebre seguito da una banda musicale e l’immancabile lettura del testamento da parte dei familiari, viene dato alle fiamme su di un rogo appositamente allestito: il fuoco, riducendo in polvere le sue “spoglie”, rende giustizia ( riporta l’ordine) all’ingiustizia (il caos) di un uomo avaro che nulla ha lasciato in eredità ai parenti: «Aaah! disgraziatu! aaah! curnutu! nenti nni lassò! stu curnutu nenti ni lassau, nenti!…» (I. Buttitta, Le fiamme dei Santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia).
Il carnevale, dunque, di-schiudendo la sua funzione di capro espiatorio, risolutore dell’eterna lotta tra bene e male, rivela non poche analogie con tradizioni che precedono persino la cultura latina di cui la festa pare essere diretta discendente: nell’antica Babilonia, per fare un esempio, alcuni riti orgiastici si concludevano con l’incoronazione di un re-schiavo cerimoniale e con la sua flagellazione e impiccagione.
In Grecia, le Antesteria, in onore del dio Dionisio, prevedevano che nel primo dei tre giorni di festa un grosso carro a forma di nave portasse in processione colui il quale avrebbe dovuto rigenerare il mondo. A Roma, invece, in età imperiale, si inscenava nei circhi, il passaggio dei pianeti nel cielo verso la primavera attraverso il ricorso a carri simbolici. Queste usanze, che sembrerebbero giustificare la presenza dei fantasiosi carri allegorici nelle nostre sfilate di carnevale, potrebbe rivelare altresì, stando al Winckelmann, un’etimologia alternativa al “carnes levare” dedotta dal termine carrum navalis, “car navale”, col quale si indicava il carro a forma di nave utilizzato nelle feste in onore della dea Iside.
Che si tratti di parate in costume, di sfilate di carri o di messe in scene più o meno improvvisate, non vi è Carnevale in assenza di maschere. A tal proposito, Marcella Croce ricorda l’uso delle Baccanti di indossare maschere e di tingersi le gote col sangue delle vittime ed aggiunge che «le maschere rappresenterebbero, inoltre, le immagini dei defunti: indicano il rimescolamento cosmico fra vita e morte e rendono esplicita la situazione di rischio dovuta allo scatenarsi delle forze demoniache alla fine dell’anno. Si pensa che il nome Arlecchino derivi da helle e koening ( in tedesco “ re dell’inferno”)».