di Gabriele Bonafede
Quando, nel secondo dopoguerra, Jean Genet mise per la prima volta in scena Le serve (Les Bonnes), la sua pièce fu accolta malissimo da pubblico e critica. E non poteva essere diversamente. Non solo perché difficilissima da interpretare e per tutto ciò che c’era dietro la scrittura stessa, secondo quanto dichiarato o meno dall’autore. Ma anche perché la Francia di allora, come tutto il mondo, usciva dalla guerra con una gran voglia di vivere e ricominciare. Poco spazio, o poca attenzione, era concessa a quella poetica. La poetica, l’arte, che sonda l’intimo dubbio sospeso sulla sottile linea tra bene e male.
Genet, del quale anche Sartre scrisse tanto, percorreva quella linea quale motivo stesso della sua opera teatrale e letteraria. E Le Serve era un pezzo di quel percorso, sia pure scritto su ordinazione.
La lucida follia del carnefice che si fa vittima e viceversa era un tema che poteva essere utile prima di quella guerra. Ma che fu ignorato dai più, andando incontro al certo disastro. Oggi, dunque, il tema è quanto mai attuale. E ha fatto bene il teatro Biondo a riproporlo. Soprattutto con un cast che sulla scena, a Palermo, ha confermato una sconvolgente drammaturgia.
Crudo, estemporaneo quanto ricercato, carico di rappresentazione, il linguaggio teatrale di Genet è riuscito particolarmente bene: celebrando il disperato crescendo di Le Serve in questa versione diretta da Giovanni Anfuso e recitata da Anna Bonaiuto (Solange), Manuela Mandracchia (Claire) e Vanessa Gravina (Madame). Andare a vederlo, più che un’occasione, direi sia quasi un’urgenza, una necessità, un certezza, una crescita. E forse accade raramente in una periferica città d’Europa.
La prima, di venerdì 25 novembre, ha sorpreso e spaventato. Ha riportato in superficie ciò che sarebbe stato rimosso. Ha trascinato la platea nella psicologia materiale e immateriale del conflitto tra “classi”, se ancora oggi si può dire.
Ha trasportato il pubblico nel rapporto tra donne devastate dall’amore e dall’odio, demolite dall’ammirazione e la commiserazione, trasformate dall’invidia e l’emulazione. Obnubilate dalla sciagurata, piccola, potenza terrena.
Probabilmente non esiste, nell’opera di Genet, un solo istante in cui il suo equilibrismo tra bene e male non rischi di cadere da un lato o dall’altro. Recitare, capire, assorbire e avverare questo equilibrio è come camminare sul filo sospeso dell’artista sotto il tendone del circo peso di realtà. Senza la rete sotto. O forse con una rete, ma in fondo a un largo e profondo pozzo dove il solo tuffo potrebbe uccidere.
Ho visto Claire e Solange tuffarsi in quel pozzo. Ho visto Madame far finta di non essere là in fondo, pur essendone sommersa. Ho ascoltato la musica coprire di tormento quel tuffo disperato, preparato da Genet e cucinato da una regia che forse Jean non aveva immaginato.