di Daniele Billitteri
Quando mi è arrivata la notizia della morte di Fidel, la prima sensazione che ho provato è stata di lutto. Perché con lui è morta una parte di me, c’è poco da fare. Vero è che io ho 65 anni e lui ne aveva 90. Ma venticinque anni di differenza fanno pensare al più vecchio più come a un padre che come a un fratello. E non c’è dubbio che Fidel “mi ha cresciuto” perché è stata una delle presenze della mia vita da quando avevo una decina di anni.
Fidel era un dittatore, su questo non ci sono dubbi. Ne cacciò un altro che aveva trasformato Cuba nel buen retiro per ogni sorta di trafficanti, intrallazzasti, giocatori d’azzardo e puttanieri. Dittatore, certo. Partito unico, elezioni farsa, sbirraglia occhiuta e opprimente. E non basta ricordare che a Cuba non ci sono analfabeti, neanche di ritorno, che negli ospedali ti ricoverano e non ti prendono a calci in culo se non hai la previdenza. Fidel, il dittatore che ha ospitato due Papi. Quanti ne ha ospitati Putin? Ma tutto questo è materia per gli storici. Dopo tutto è la Storia, coi suoi tempi, a distribuire torti e ragioni. Paradossalmente io qui non parlo di lui ma di me.
Intanto si chiamava Fidel che è un bel dire. Fidel, fedele, affidabile. Non certo come il dittatore che scacciò che si chiamava Fulgencio (Batista), nome tronfio e “distante”. Come le stelle fredde. Vuoi mettere con la Stella della Rivoluzione? Quella sul basco del “Che”? Per molti dei miei coetanei Fudel era quello era sceso dalla Sierra Madre al comando di qualche centinaio di “descamisados” “barbudos” in nome e per conto delle puttane bambine, dei contadini sfruttati, degli ignoranti senza speranza, di quella cosa bellissima e misteriosa che è il “Popolo” comprese maiuscole e (doverose) virgolette. Fidel nel mondo non aveva bisogno del cognome. Pure all’Onu era Fidel e basta. E’ come se qui bastasse dire Matteo, Giulio, Ciriaco, Bettino. Ma mi facciano il piacere…
Fidel che scende dalla Sierra Madre era per noi come Gesù che entra trionfante a Gerusalemme la Domenica delle Palme, era la vittoria del giusto sullo sbagliato, era la consapevolezza che non sarebbe stato facile, che la “dittatura del proletariato” era una dittatura speciale, necessaria e transitoria. Non era vero neanche questo. Ma vi sto raccontando come “passava” Fidel dentro di me. Non nella Storia. Fidel, “Che” Guevara, Camilo Cienfuegos. Mentre nel “mercato dei miti” altri articoli si presentavano come irresistibili: Mao, Ho Chi Minh e tutti questi assi finivano in un mazzo di carte confuso, tenuto insieme più dalla passione che da una vera energia di legame: da Ghandi agli Stones, da Malcom X a Pelè, da Stokey Carmichael a Bob Dylan, da Luther King al generale Giap. E qui da noi c’erano Guccini e De Andrè, Celentano e Dario Fo. Nel nostro piccolo…
La prima manifestazione alla quale ho partecipato fu nell’autunno del 1967 quando uccisero il Che in Bolivia. Stessa razza di Fidel: rivoluzionario, barbuto, il sigaro in bocca, il basco con la stella, bello e sexy: chi non avrebbe voluto essere come lui?
Molti oggi si eserciteranno a raccontare quello che fece o quello che non fece, le libertà che portò (dal bisogno, dalla malattia, dall’ignoranza. Manco fosse Battiato), e quelle che negò in termini di diritti civili. Do ragione agli uni e agli altri.
Ma io oggi non piango nessuno perché piangere Fidel vorrebbe dire piangere la mia gioventù. E le gioventù non si (rim)piangono perché c’è un tempo per tutte le cose. Sorrido invece pensando a tutte le cose belle che ho vissuto finora, alle risate, ai sogni, alle passioni, alle femmine, ai bambini, alle albe e ai tramonti, alle ire creative, alle speranze. Lo so: se Fidel nascesse ora forse finirebbe a dirigere un supermercato e ad accompagnare i nipoti a un concerto di Justin Bieber, a un comizio di Beppe Grillo o chissà, di tale Salvini. E le uniche foto sarebbero quelle sull’album di famiglia. E sulla carta d’identità. Senza barba. Diventerebbe brutto, lo so. Non l’ho mai visto senza barba. Novant’anni; ad arrivarci…
Ciao Fidel. Confesso di avere amato alcuni dittatori sorvolando colpevolmente su alcuni piccoli dettagli. Ma tu sei il primo della lista, quello che, nella gara dei dittatori, taglia per primo il traguardo del mio cuore.