di Gabriele Bonafede
Aveva visto giusto Giuseppe Airoldi quando propose, circa un secolo fa, i colori rosa e nero per il Palermo calcio: rosa per le vittorie e nero per le sconfitte, con rituale bicchierino di liquore cromaticamente accordato a celebrare comunque lo sport, nella gioia o nel dolore. Era rosolio in caso di vittoria, e amaro in caso di sconfitta.
E, purtroppo, con quella di ieri a Cagliari, le sconfitte consecutive sono ben quattro. Penultimo posto in classifica e tempi duri, sia pure in massima serie. E quindi, è un bicchierino di amaro da quattro partite mentre il rosolio è riposto nell’armadietto da troppo tempo. In questi casi, si pensa più facilmente alla storia di una società, soprattutto nel giorno di un compleanno non particolarmente felice.
E pensando ai 116 anni che compie il Palermo, i ricordi vanno necessariamente ai tempi andati, siano essi migliori o peggiori dal punto di vista del mero risultato calcistico. Infatti, i teenagers rosanero di oggi, vedono il Palermo in “tra la A e la B” praticamente per la prima volta. In molti, un poco più ossidati dal tempo, lo abbiamo visto anche in C2. E con uno scenario antropico dentro e fuori lo stadio che, anche a memoria d’uomo, appare totalmente diverso. Negli anni ‘70 e ‘80, ad esempio, c’era meno, ma c’era anche di più.
Personalmente, le prime volte che sono andato allo stadio non le dimenticherò mai. Si giocava in B, ovviamente, e c’era la Favorita con Renzo Barbera presidente e presente.
C’era un solo anello e le curve, rigorosamente chiamate “popolari”, avevano “scalini” alti solo 15 centimetri, dove ci sia ammassava in una folla inestricabile e, purtroppo, quasi del tutto priva di donne, nonostante il colore dominante fosse puntualmente il rosa delle bandiere e delle prime sciarpe. Sediolini, manco a parlarne.
Lo stadio, anche con un solo anello di spettatori, conteneva ben 40.000 persone: più di quelle che contiene oggi, a spese, allora, della sicurezza e della vivibilità. A volte anche del respiro. Con l’apertura e la chiusura della stagione si sudava molto, e non solo in campo o per la tensione da tifoso. Palermo ha tipicamente una temperatura di 25-30 gradi, molti di più al sole della gradinata o dei popolari, per almeno quattro mesi della stagione calcistica.
Quasi tutti maschi, ma non solamente uomini adulti: eravamo in tanti i ragazzini che entravano con “il padre o lo zio d’occasione”. Bastava farsi precedere da uno sconosciuto e complice crisitianeddo di mezza età per entrare gratis. I grandi erano ben contenti di favorire l’entrata “a ufo” dei ragazzini, chiamandoli mentre erano in coda: “Vini ‘cca ca ti fazzu trasiri u stadio”. Torme di ragazzini a gruppi chiedevano “mi facissi trasiri” con puntuale risposta: “Perciò! Un c’è pobrema!”.
Le porte girevoli scattavano con il clang-clang di rito, e ci si lasciava con un “grazie e forza Palermo” pochi metri dopo essere entrati per poi raggrupparsi con i compagnetti da stadio della domenica. E si giocava rigorosamente e solo di domenica, alle 14.00, quando il sole picchiava duro, più di Di Cicco e Vullo, e l’unico refrigerio, in mancanza dei numerosi cappellini di oggi, era il giornale a mo’ di copricapo da muratore. Meglio se Gazzetta dello Sport, che era già rosa-nero all’epoca.
Ma solo per quello, perché allora come oggi, la Gazzetta era prona al tifo di massa per le odiate “strisciate”, potenti manipolatrici del calcio di quei tempi come quello del domani. Un anno, infatti, il Milan retrocesse in B per lo stesso tipo di manipolazioni nei risultati, “paste con le sarde” e via discorrendo, per le quali in tempi recenti è scesa tra i cadetti la Juventus.
Dentro lo stadio i cori erano diversi. S’intonava La Marsigliese, ma con parole da tifo: “Che ci vien dal profondo del cuor, alé, rosa, alé, alé, alé, alé”. La nazionale francese, evidentemente, era ancora una mezza “cenerentola” e non c’era alcuna rivalità con i cugini d’oltralpe.
In campo i giocatori si esibivano in condizioni totalmente diverse da quelle di oggi. Chi, da avversario, andava a battere un calcio d’angolo, era costretto a farsi una specie di doccia anzitempo per via di formidabili tempeste di sputacchiate prodotte dai peggiori tra noi “picciriddi”. Si trattava di “imprese” di bambini anche di soli otto anni, ben allenati nell’arco della settimana. Oggi, per fortuna, il disgustoso scherzo della pioggia di sputi non è più praticabile perché ci sono i vetri a protezione del prato di gioco anziché le sole inferriare o reti come allora.
Puntualmente, ogni lunedì, nel tabellino della partita sul Giornale di Sicilia o il L’Ora, dopo gli ammoniti e il numero degli spettatori si leggeva “ammenda di tot lire al Palermo per sputi ai giocatori avversari, al guardialinee, etc.”. La copia del giornale era un vero cimelio e un premio per chi aveva prodotto “quell’impresa” così certificata sulla carta stampata.
Più di una volta si notava la scarsa voglia dei giocatori avversari a tirare il calcio d’angolo, se non l’espresso rifiuto. E nulla ci poteva: l’assalto dei ragazzini era impietoso e puntuale, anche perché tutti privi di padre reale negli spalti ma solo di padre o zio d’occasione, già dileguatosi nella massa.
Nonostante l’inflazione galoppante, il biglietto dei popolari costava ancora 2.200 lire (pari a poco più di 1 euro e venti) alla fine degli anni ‘70, con eventuale ricarico di 100 lire da parte dei numerosi “bagarini”: cioè 5 centesimi di euro, che se li dai oggi a un posteggiatore rischi di finire come un calciatore avversario nel calcio d’angolo, o peggio. I biglietti, poi, erano fatti di una carta stranissima che conteneva curiosi disegnini neri evocanti pelacci schifosi. Ciononostante, capitavano denunzie di contraffazioni una volta ogni tanto.
Il ghiacciolo c’era già allora, ovviamente. E, come oggi, debitamente lanciato dal ghiacciolaro per decine di metri sopra le teste dei tifosi, a seguito di pagamento, (50 lire a ghiacciolo e forse anche meno), sempre al volo. Ma non era solo all’arancia: c’era anche la variante al limone. Ed aveva una carta non abbastanza plastificata che si attaccava a causa del gelo.
Si doveva aprire da un lato e soffiarci dentro per evitare di mangiare la versione bi-gusto “arancia-carta” o “limone-carta”. Era venduto con l’indimenticabile cantilena “U sapuri r’u gol! Ghiaccioli! All’arancia, al limone, ghiaccioli!”.
E talvolta, comprarlo, portava veramente fortuna: un Magistrelli, un Chimenti, un Majo, un Arcoleo, un Gianni De Rosa buttava la palla in rete proprio in quel momento, scatenando la nota “bomba d’urlo” della Favorita, e del Barbera, in un’onda emotiva e voli in aria di tutto, compresi i ghiaccioli o le buste d’acqua, allora vendibili sugli spalti.
Palermo miracoloso, perché a mia memoria non ho mai visto nessuno farsi male, nemmeno i vecchietti di ottant’anni autori della nota frase “Un ci vaiu ‘cchiu u stadiu”, dopo un noioso 0 – 0 oppure una sconfitta. E che poi tornavano lo stesso, sempre più arzilli e urlatori.
Fuori, ma proprio davanti la cancellata esterna che allora era molto più vicina agli spalti, c’era il popolo dei venditori ambulanti che vendeva di tutto ai tifosi in entrata e soprattutto in uscita. Cerano ovviamente le panelle come oggi, ma c’erano anche “u paninu cunsalata”, u sfinciuni, i “pititttoni”, e tanto altro.
U paninu c’unsalata era di composizione a piacimento del venditore, “arriminato ch’i mani lorde”, secondo le leggende metropolitane, conteneva di tutto: lattuga, cipolle, olive, musso, sedano.
I pitittuni, per chi non lo sapesse, erano (e sono) i cedri nostrani, venduti aperti a spicchi, con il sale quale condimento. Servivano anche a resistere nelle giornate con caldo proibitivo, puntuali anche in inverno.
Ma soprattutto, c’era la gazzosa. Che oggi non c’è più, sostituita da bevande e soft-drink d’oltre oceano o d’oltre Stretto. La gazzosa era di produzione rigorosamente artigianale, anzi, familiare. Le bottiglie non avevano etichetta e il sapore variava da venditore a venditore.
In ogni caso dava una voce migliore, per urlare insieme a Pino Caruso e quando ce n’era l’amara occasione: “Arbitro, s’i cervi vulassiro, to mugghieri t’avissi a dari a manciari c’a cerbottana!”.