di Anna Fici
Palermo – 16 ottobre 2016 – Un po’ in sordina, appena l’altro ieri, venerdì 14 ottobre alle 19.00, si è inaugurata alla GAM di Palermo la mostra Icons, di Steve McCurry. Ciò malgrado una notizia ANSA dello stesso 14 ottobre, preannunciasse l’inaugurazione per sabato 15 alle 19.00.
Questo difetto di comunicazione ha fatto sì che buona parte di coloro che si sono recati di sabato alla mostra per le 19.00 l’ha trovata già chiusa. L’intento degli organizzatori era forse quello di fare un’inaugurazione a porte chiuse per le Autorità? Anch’io sono rimasta fuori e solo stamattina sono riuscita a vederla.
All’uscita non ero più la stessa! In un’ora o poco più ero stata attraversata festosamente dai monsoni, mi si era allagata l’anima in Thailandia, avevo temuto per gli impavidi bambini di Beirut, avevo giocato con dei giovani monaci buddisti in Cina, ero affondata nello sguardo profondissimo di un nomade Rabhari del nord dell’India. Mi ero sottoposta insomma ad una rapidissima centrifuga di emozioni: avevo perso la percezione di me ed ero tutt’uno con il respiro del mondo.
Una mostra di tali dimensioni dedicata ad un grande fotografo da queste parti è una rarità. McCurry, in particolare, ha visto decollare la propria fama da quando, nel giugno del 1985, il ritratto di una ragazza afgana dai grandi occhi verdi è stato pubblicato in copertina sulla rivista del National Geographic.
Come è accaduto ad altri fotografi la sua notorietà, nel bene e nel male, è legata ad un’immagine divenuta simbolo. (Penso all’italiano Tony Gentile con la fotografia di Falcone e Borsellino). Ma i suoi meriti vanno ben oltre. Scattata in un campo profughi vicino a Peshawar, in Pakistan, appena prima dell’invasione russa in Afganistan, è diventata la Monna Lisa dei nostri giorni, portatrice di una diversa ma non meno intensa ambiguità nello sguardo. Un ritratto che coniuga mirabilmente bellezza, giovinezza e paura e che fa parte di un servizio più ampio che ha vinto la Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad: un premio assegnato a fotografi che si sono distinti per il coraggio dimostrato sul campo.
Il tema centrale nella produzione di McCurry è l’impatto della guerra sugli uomini. Sono stati molti i viaggi che ha compiuto in tutto il mondo. Ha raccontato un po’ tutte le guerre dalla seconda metà del secolo scorso: Iran-Iraq, Beirut, la Cambogia, le Filippine, la guerra del Golfo… con l’obiettivo sempre puntato sullo scorrere della vita mentre la guerra accade.
La sua esperienza professionale ha attraversato il passaggio dalla pellicola al digitale trovandolo pronto a recepire il cambiamento. Tanto che, non molto tempo fa’, una sua immagine scattata a Cuba ed esposta alla Reggia Venaria di Torino ha suscitato non poche polemiche per la post-produzione spinta svelata da un palese “errore”. Approfondisco questo tema in un altro articolo con una breve intervista a Tony Gentile.
Sorvolando sul sovrabbondante gossip che la vicenda ha scatenato e guardando all’ “errore” in una chiave di maggiore spessore, va riconosciuto che questo fatto ha posto il fotografo al centro delle due questioni oggi più dibattute in fotografia: quella della continuità o discontinuità tra analogico e digitale e quella della credibilità delle immagini contemporanee.
Autori come Claudio Marra (ne “L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale”, Bruno Mondadori Editore, 2006) – , Michele Smargiassi – (in “Un’autentica bugia” Contrasto, 2009) – , solo per citarne un paio del contesto italiano, e molti altri anche del contesto internazionale, le hanno affrontate ponendo in evidenza come, da un lato la fotografia non abbia a tutt’oggi perso la funzione di testimoniare il reale e dall’altro abbia sempre anche avuto la capacità di mentire.
Già Ansel Adams sosteneva che, semplicemente, la fotografia non mente ma i fotografi si. Ed è storia, d’altra parte, il fatto che fotografia e pittura abbiano sempre giocato ad imitarsi, fin dalla ritrattistica di tardo Ottocento: si pensi alle fotografie colorate a mano.
Nel caso di McCurry ciò che stupisce è la compresenza di contenuti da reportage espressi in una forma pittorica altissima che vagamente evoca atmosfere cinquecentesche. Si tratta forse, da sempre, al di là della polemica sul singolo scatto cubano, di una pittura istantanea. La tavolozza di McCurry è un range personale, quasi una firma. La capacità di catturare la luce, i contrasti cromatici e di significato, è così spiccata da lasciare senza parole, da far pensare ad una premonizione, ad una visione dell’autore che si è poi concretizzata. Ed è questo che fa la differenza. E’ questo che fa il Fotografo: esserci così tanto e così profondamente da conoscere luoghi e persone e saper aspettare l’allineamento di tutte le condizioni per assistere alla magia istantanea.
Gli istanti colti da McCurry sono attuali eppure non si esauriscono nell’attualità, sono notizie per il cuore e, in quanto tali, il loro senso non si esaurisce con il tempo, non scade. Seguono un’estetica personale e rigorosa, eppure non sono mai solamente belle ma anche altamente significative. Parlano del Novecento e di questi primi anni Duemila ma in una chiave universale. Denunciano senza urlare, sfruttando la potenza della bellezza: della bellissima tristezza degli occhi della ragazza afgana o della desolazione dei cargo arenati e pronti alla rottamazione in Pakistan.
La composizione, sempre impeccabile, sa cogliere il movimento e la vita dei contesti, rendendo “contesto” ovvero narrazione anche le rughe di un volto: come nel caso del ritratto di un anziano monaco tibetano che trasuda fatica, o nei ritratti dei nomadi Kuchi, realizzati in India, alla metà degli anni Novanta.
La mostra, ben allestita, e curata da Biba Giachetti, giunge a Palermo dopo aver toccato numerose tappe in Italia e all’estero. Rimarrà aperta fino al 19 febbraio 2017. Dopo esserne venuta fuori, rimasta per un attimo a pensare in Piazza Sant’Anna, ancora immersa nell’emozione della straordinaria esperienza appena fatta, sono stata letteralmente investita dalla fiumana dei partecipanti in maglietta verde dell’Italia Photo Marathon che si spostavano in gruppo per il centro storico.
“Appassionati di fotografia” – ho pensato. Ma la sensazione di stridore era fortissima. Mai la fotografia è stata così frequentata e così negata. Nessuno di loro ha volto per un attimo lo sguardo all’ingresso della Galleria, al manifesto della mostra. Eppure erano mediamente dotati di attrezzature anche migliori di quelle con cui si muove McCurry spostandosi per il mondo, come mostrato dal video che corrobora la mostra.