di Matteo Bavera
Ivo van Hove dirige ad Amsterdam il Teatro della Toneelgroep, un’insieme di attori e registi che lì ha trovato casa e proietta in Europa la propria influenza e sapienza teatrale. Pensando all’asfittico panorama teatrale italiano così ripetitivo e privo di grandi slanci creativi, tranne pochissime realtà, è abbastanza impressionante vedere il regista belga cimentarsi, nello stesso scorcio di stagione, con due monumenti del cinema e della letteratura.
Ad Avignone questa estate, prima con “Les damnés” tratto a “La caduta degli dei” di Visconti, a Bochum, poi, per l’ultima edizione della Ruhr Triennale pochi giorni fa, con “Die Dinge, Die vorubergehen”, il romanzo di Louis Couperus (un Thomas Mann belga da noi sconosciuto) traducibile in “Anziani e le cose che passano” ,uno studio psicologico di costume a partire dall’anno 1906.
Entrambi i lavori sono legati dall’indagine sul “Segreto di famiglia”, da un lato la collaborazione di un grande industriale tedesco con il nazismo, dall’altro, un omicidio commesso nelle Indie olandesi che continua ad avere una influenza distruttiva sui decenni a venire della famiglia coinvolta.
Il primo è diretto da Von Hove con gli attori francesi de “La comèdie Francaise”, il secondo con gli attori di lingua fiamminga del suo teatro di Amsterdam. Ora, non sempre i grandi registi della scena europea hanno raggiunto risultati apprezzabili quando hanno diretto attori di altre lingue e provenienze, non è questo il caso di Van Hove, che passa da una lingua all’altra con risultati attoriali memorabili.
E se questo è ovvio con i suoi attori, occorre invece dire del suo grande lavoro su quelli francesi, spesso così ingessati nei loro alessandrini e qui liberi e sorprendenti per adesione al complesso e rischioso progetto. Il regista lavora non sul film bensì sulla sua sceneggiatura. Subito dichiara di voler collocare i protagonisti dentro una rappresentazione teatrale, mettendo sul lato sinistro i camerini a vista con le loro luci e i loro specchi tradizionali. Come nel film l’inizio è il grande pranzo della famiglia riunita, i camerini permettono un montaggio che riesce a rendere la vita privata dei protagonisti nei momenti più intimi. E’ la storia della famiglia Essenbeck al tempo del trionfo del nazismo e della salvaguardia degli interessi della grande industria tedesca.
Alla magnificenza e grandiosità della scenografia che ingloba il Palazzo dei Papi di Avignone Van Hove contrappone una sontuosa sobrietà, nel bellissimo spazio industriale di Gladbeck, già usato da Warlikowski per Proust, ma questa volta gestito in lunghezza e con un grande specchio sul fondo che accoglie l’immagine riflessa della platea. Un pavimento chiaro a quadrettoni e numerose sedie, ben oltre il numero degli interpreti, ai due lati, come se anche noi fossimo invitati a sedere con gli straordinari attori, tutti da citare: Katelijne Damen, Fred Goessens, Janni Goslinga, Aus Greidanus, Abke Haring, Robert de Hoog, Jip van den Dool, Hans Kesting, Hugo Koolschijn, Maria Kraakman, Celia Nufaar, Frieda Pittoors, Gijs Scholten van Aschat, Bart Slegers, Luca Savazzi, tutti a noi sconosciuti ma da ritrovare…
Se la dinamica dei Dannati è barocca e ricca di invenzioni registiche, gli anziani di Gladbeck limitano al massimo la propria azione, eccetto in un paio di momenti, coltivando piuttosto un narcisismo della vecchiaia già in atto per alcuni di loro e all’orizzonte per le generazioni più recenti.
Il tempo è scandito anche qui da musiche dal vivo, ma se nei Dannati di Eric Sleichim si alternano a flash di musica concreta duri come frustate, qui c’è un orologiaio, Harry de Wit, che governa pendoli orizzontali, fino a quando terminato il tempo soffia nella nebbia, dentro un sassofono basso, i suoni lugubri della fine.
Nello spettacolo di Avignone troviamo tutto quello che ci si può aspettare in una grande messinscena europea. Dalla semplicità dello spazio con i muri lasciati a nudo sul fondo, ma con un gruppo di musicisti dal vivo nel balconcino centrale, all’orizzontalità di una scenografia che a parte i camerini mostra con evidenza un grande tappeto arancione e sulla destra un palchetto con allineate 6 bare.
E poi la parte video che qui risulta notevole ed efficace come solo in Castorf. Come per l’anniversario del capostipite Joahkim Essenbeck, ripreso dalla camera a vista e proiettato sul fondo del palazzo, mentre reagisce agli insulti senza una parola ma solo con le contrazioni del viso tramutate in smorfia, così ravvicinato da far diventare Tal Yarden e il suo mezzo un attore in più. Più tardi il baccanale della notte dei lunghi coltelli con i due attori nudi in scena ma decuplicati nelle immagini di fondo con altri soldati in divisa fino all’orgia di sangue, con Denis Podalydès chiamato al ruolo più ingrato, quello di Konstantin von Essenbeck il nazista membro delle criminali SA.
Il racconto dei vecchi si sviluppa più in sordina, sono le seconde generazioni di settantenni che hanno potuto assistere all’assassinio dell’amante della decana della famiglia, così carica in viso dei suoi 92 anni, a lanciare i primi segnali di verità. Con lei Takmà, a sua volta ultra novantenne a pagare il prezzo di un mancato o mal gestito rapporto amoroso, causa dell’assassinio del primo marito di Ottolie, fantasma indelebile della loro vita successiva segnata dal senso di colpa.
Non meno tormentata è la vita dei più giovani della famiglia, Anche loro sono maledetti, anche loro in pericolo di essere soffocati dal passato, credono che il matrimonio potrà finalmente bandire tutte le loro paure, che il loro viaggio di nozze in Italia li libererà dalla morsa soffocante di L’Aia. Tuttavia, essi sono presto costretti a rendersi conto che il trauma li ha seguiti a sud, nella bella scena all’hotel italiano di lusso, tra champagne e sregolatezze erotiche impotenti, con il fantasma della madre convenuto a ricordare il suo amore italiano, Aldo. Statua di greca bellezza al cui fascino ha forse ceduto pure lo stesso giovane.
Le sregolatezze sessuali non si sprecano neppure tra i “Krupp”, forse la famiglia a cui Visconti si era riferito nel film, e ritroviamo Shakespeare e i Macbeth di Elsa Lepoivre nei panni di Sophie von Essenbeck e Guillaume Gallienne, in quelli di Friedrich Bruckmann erede usurpatore. Se,per un attimo pensiamo a Dirk Bogarde, Helmut Berger, Ingrid Thulin o Charlotte Rampling della versione cinematografica, dobbiamo immaginare la sorta di terrore che può aver traversato la schiena degli attori de “La comédie Francaise. Ma Van Hove ha cancellato questi spettri, rendendo tutta la troupe cosciente della differenza e della potenza che il grande teatro può infondere, senza minimamente rifare il film, riuscendo infondere allo spettacolo una potenza barocca controllata nelle contrazioni finali di una danza di morti.
Ora il medico confessa di aver redatto un verbale di morte per cause accidentali, ma in cambio di una notte d’amore con Ottolie. Il fratello scappato dalle Indie per le voci che si effondevano su questo segreto di famiglia e via via fino a scoprire che tutti sapevano e avevano a proprio modo taciuto.
Ed è in queste varianti che si scopre il valore degli attori, il disegno minuzioso di ogni carattere adeguato all’età per attori che in alcuni casi si sono invecchiati di oltre trent’anni.
Lo specchio sul fondo gira su se stesso e ci nostra il teatro, la sua graticcia, i proiettori, i ventilatori e i secchi per la tempesta di neve e i riflettori… diventa schermo cinematografico, per mostrare gli orrori delle guerre e delle città distrutte, quasi contraltare tragico di oggi alle piccole vite dei borghesi della pièce, a ricordarci che fuori c’è qualche cosa di più tragico e universale a cui il teatro deve attendere.
I Dannati finiscono ad uno ad uno nelle proprie bare, ma come morti viventi mostrano il proprio dolore e raccapriccio di sepolti vivi, ripresi durante lo spasmo finale da piccole telecamere contenute nel sepolcro, un altro colpo da maestro di Ivo van Hove.
Non abbiamo ancora detto di Martin Essenbeck, un transgender d’altri tempi, che sconvolge più volte i piani degli industriali con successioni non previste a capo dell’azienda, fino a prenderne su stesso la tragica responsabilità. Non troveremo l’angelo l’azzurro di Helmuth Berger, ma un giovane attore attanagliato dal lugubre senso di colpa di chi prova ad impedire le nozze di sangue tra il nazismo e il capitalismo.
Coi propri mezzi, la diversità, il teatro l’amore per l’infanzia, finirà a sua volta travolto e umiliato come nello scherzo del corpo spalmato di pece e ricoperto di piume.
Come, pure, ricoperti da una pesante coltre di neve nera spariranno i vecchi e i giovani complici dell’assassinio di famiglia e dell’amore negato. Per sprofondare, infine, tra la densa nebbia di un impossibile riscatto umano.
Non possiamo, infine, che ringraziare Van Hove e tutti i produttori e direttori artistici dei due spettacoli per questi miracoli teatrali. Anche noi presi da un senso di impotenza e vergogna per la pochezza della nostra scenetta italiana, incapace persino, tra quasi tutte le grandi e ricche istituzioni, di mostrarci che il Teatro ha ancora un senso profondo ed etico, e dunque estetico.
Le foto in copertina e nell’articolo sono di Jan Verseyveld.