di Pasquale Hamel
L’assassinio di Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, la prima vittima eccellente di mafia, e le vicende giudiziarie che ne seguirono con un Raffaele Palizzolo, deputato del partito regionista accusato di essere il mandante dell’omicidio e il referente del tenebroso sodalizio mafioso palermitano, suscitò molto clamore nell’Italia che avviava la lunga stagione giolittiana e, in Sicilia, una risposta dell’opinione pubblica contraddittoria.
Moltissimi si schierarono, infatti, a favore del Palizzolo, interpretando erroneamente, cioè come una sorta di vendetta del nord contro l’isola, le accuse e il significato della condanna che il tribunale di Bologna avrebbe inflitto al personaggio ed ai suoi sodali.
Ci fu però chi, come don Luigi Sturzo, non solo non s’intruppò con la canea sicilianista che si sarebbe raccolta attorno al “Comitato Pro Sicilia” ma, addirittura, ne trasse spunto per elevare la sua voce di condanna nei confronti della mafia, della corruzione e degli intrallazzi che impedivano alla Sicilia una crescita economico-sociale adeguata.
Ancor prima della sentenza di Bologna, don Luigi aveva infatti scritto il dramma in cinque atti “La Mafia” che venne rappresentato il 25 febbraio 1900 al Teatro Silvio Pellico di Caltagirone. Sturzo, nonostante i tempi non fossero maturi per arrivare a denunzie così puntuali, mise in scena con un linguaggio crudo ed estremamente realistico, che peraltro suscitò qualche perplessità fra quanti si occuparono post mortem di mettere insieme le sue opere, gli intrecci e le connivenze fra mondo borghese, politica, poteri economici e mafia.
Il dramma di Sturzo, carico di passione civile, di impegno al riscatto e perfino di invito alla ribellione, era infatti intriso di un forte pessimismo e non aveva nulla da spartire con la consueta letteratura edificante, tipica soprattutto del mondo cattolico di allora, che offriva sempre la necessaria vittoria del buono sul cattivo che, in questo caso, avrebbe comportato la sconfitta del mafioso. L’opera offriva invece un’immagine cruda, tutt’altro che edificante, che dimostra una non indifferente conoscenza del fenomeno mafioso da parte dell’autore.
Nel dramma infatti trionfa l’intrigo, trionfa il malaffare, in poche parole, trionfa il “male”. Ed infatti, il protagonista positivo, l’avvocato Ambrosetti, il professionista che tenta di opporsi alla sindacatura dello spregiudicato commendatore Palica sostenuto dalla malavita e dal deputato di San Baronio, alla fine muore avvelenato per mano di sicari mafiosi.
Ma questi trionfi, ed è qui il taglio specifico dell’opera, vengono rappresentati con un linguaggio estremamente realistico, con un’immagine tanto concreta e forte da destare, nello spettatore, perfino disgusto.
“La mafia” è dunque un esempio di teatro autentico di vita vissuta per descrivere la quale, come giustamente pensava Sturzo, era necessario quel linguaggio della vita non filtrato da moralismi o formalismi. Quel linguaggio fece però storcere il naso a molti al punto da non considerarlo proprio del modo di esprimersi di un uomo di chiesa qual era Sturzo.
Un linguaggio che, dunque, non poteva certamente piacere. Tanto è vero che, proprio il finale dello stesso dramma, con la scusa che in quel momento non si trovava, fu addirittura modificato dal grande drammaturgo Diego Fabbri per la rappresentazione che si svolse a Roma alla fine degli anni ’70.
Fabbri, infatti, modificando in positivo il testo, stravolse in senso ottimistico la vicenda raccontata e, nonostante la sua maestria, ne fece una sorta di favoletta nella quale alla fine “tutti vissero felici e contenti”.
Un tradimento, in qualche modo, di quel realismo sturziano che abbiamo imparato a conoscere, cioè di uno Sturzo, uomo di fede ma con i piedi saldati fortemente a terra.
In copertina: Luigi Sturzo da giovane, immagine tratta da Wikipedia. Di anonimo – foto del 1905, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2946270