di Gabriele Bonafede
Alle 13.28 del 14 gennaio 1968 la Valle del Belice fu travolta dal terremoto e Gibellina, insieme a tanti altri centri del Belice, fu rasa al suolo. L’entità fu sottovalutata nelle prime ore e forse anche nei primi giorni della tragedia. Molti si salvarono perché, usciti a passare la notte all’addiaccio in condizioni atmosferiche spaventose, non erano in casa mentre avvenivano le scosse più violente: quelle delle prime ore del 15 gennaio, alle 2.33 e alle 3.01. Stimata a magnitudo 6.1, questa scossa spazzò via i paesi del Belice dove vivevano decine di migliaia di persone. In massima parte erano paesi costruiti con mezzi poveri e inadeguati.
La macchina dei primi aiuti partì in ritardo. Ma gli errori del terremoto nel Belice non si fermarono lì. Molti morirono nelle macerie a causa della lentezza nella mobilitazione. E le emergenze di medio termine, così come la ricostruzione, furono gestiti in modo a dir poco incompetente. Furono fatti errori orrendi in un penoso percorso lungo decenni. Furono spese cifre incredibili con lenti e infimi risultati, soprattutto a livello economico, sociale e urbanistico.
Oggi il mondo è diverso, le istituzioni più pronte, le comunicazioni e la mobilitazione molto più avanzate. Il numero delle vittime, il disastro sociale ed economico del terremoto che ha sconvolto il cuore dell’Italia in questi giorni, sono pesanti. Ma almeno, grazie a dolorose lezioni del passato, da Gibellina in poi, si è riusciti a intervenire presto e meglio, con molte più vite salvate.
Le lezioni di Gibellina, però, restano sempre valide. E aldilà del dolore e della solidarietà di cuore, a caldo, è bene riflettere e imparare, reagire lucidamente. Operare e programmare lucidamente.
Innanzitutto sulla prevenzione. È evidente che l’Italia abbia bisogno di un vasto piano di adeguamento alle norme sismiche, soprattutto nei centri storici grandi e piccoli. Un piano che necessita di grandi risorse finanziarie, materiali e umane. E che non è più procrastinabile.
Ma anche nella gestione del post-terremoto: Gibellina non va ripetuta. Ha detto bene il sindaco di Arquata “la gente vuole costruire le case dov’erano”. Non si devono trasformare i paesini del centro Italia colpiti dal terremoto odierno in sculture tombali, come è adesso Gibellina-vecchia. E tanto meno in “città nuove” dalla dubbia qualità architettonica, sociale e urbanistica. Si deve, soprattutto, mantenere vivo il territorio, parola oggi “brutta” e in disuso, ma che ha invece un senso importante a partire da quella notte di Gibellina. Vanno ricreate le condizioni per far ripartire le attività economiche di quel territorio.
Un viaggio a Gibellina oggi lascia sconvolti: è la città fantasma del “Cretto di Burri”. Purtroppo è così, ed è anche un’opera artistica di grande potenza, da visitare senz’altro. Proprio perché evoca le lezioni di Gibellina.
Perché, sebbene grandiosa e gigantesca scultura che ha una sua forte dignità artistica, è il simbolo degli errori. Là viveva un popolo. Laddove oggi ci sono isolati segnati da solidi di cemento ad altezza d’uomo, c’era la vita, c’erano nostri nonni, cugini, amici, bambini, madri e sorelle. C’era un popolo proprio lì, solo un paio di generazioni fa. Un popolo che non solo fu sradicato e per lungo tempo abbandonato a se stesso. Ma al quale fu tolta la dignità del proprio luogo e ogni speranza di continuare una vita sostenuta da un lavoro nel paese dei propri padri.
Emigrarono quasi tutti: moltissimi altrove, fuori dall’Italia. Altri ad alcuni chilometri di distanza, prima in baracche insane e invivibili per una intera generazione e poi poco a poco sistemati in case-esperimento, in una “urbanistica” priva di luogo ed esistenza, e spesso priva di logica dietro la discutibile cortina della forma.
Le lezioni di Gibellina non sono solo quelle dell’orrore e dell’abbandono nelle prime ore del disastro, oggi lezione capita e assimilata. Non sono solo quelle dell’orrore nell’abbandono a se stessi, per lunghi mesi e anni successivi in una terra già di per se povera. Anche questa lezione forse oggi è assimilata, anche se l’esempio dell’Aquila non è del tutto limpido. Non sono solo quelle dell’evitare d’usare i terremotati quali cavie di esperimenti artistici strampalati. Non sono solo quelle del lasciarli ai pescecani del terremoto, allo sciacallaggio politico, allo sciacallaggio morale.
Ma sono soprattutto le lezioni del guardare avanti in una prospettiva di vita economica e sociale, rurale e urbana, sugli stessi luoghi. A partire dalle stesse persone e dagli stessi luoghi.
La vita continua e va fatto di tutto perché continui. Perché Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto, tutte le loro frazioni, tutti i paesi e le città colpite dal terremoto di oggi, continuino a vivere.
Dopo la fase d’emergenza, oggi condotta con molta più competenza e mobilitazione di ieri, la gestione di post-terremoto e ricostruzione ha ancora molto da imparare dalla tragedia di Gibellina. Ha molto da imparare da quei blocchi bianchi nel mezzo di una terra che pure era, ed è tuttavia, viva e ricca di speranza: basta guardarne le immagini dietro il bianco tombale.
I popoli colpiti non vanno dimenticati. Non vanno abbandonati a se stessi o peggio non consultati per il loro destino.
In una parola, la classe dirigente di oggi e di domani, dovrebbe visitare periodicamente Gibellina-vecchia, ma non per turismo: per impararne lezioni a ciclo continuo.
E camminare per una mezzora su quei blocchi di cemento imbiancati. Ascoltando le voci e i pianti di quel luogo, trasportati dal vento. Ascoltando i fantasmi che vogliono dire tante cose e una sola cosa: imparate da noi, che abbiamo pagato con la vita e con il dolore della nostra discendenza. Qui è bianco di tomba, e tutto intorno è ancora verde di campi.