di Francesco Randazzo
Diciamo la verità, nel piacere di leggere ognuno di noi mente. Almeno un po’, almeno qualche volta, per non sembrare da meno, per darsi un tono, perché, insomma, tutti lo fanno e perché dovrei essere io il primo a non farlo?
Ci sono libri che fingiamo d’aver letto. Tipo l’Ulysse di Joyce, sul quale è facile mentire, è la cronaca di una giornata inconcludente di Mr Bloom e alla fine c’è un pezzo che chiamano il monologo di Molly Bloom (che in poche pagine ti da il succo di tutto e al massimo leggi l’incipit e sto pezzo qua – perché ci stia anche Stephen Dedalus, lo sanno solo i professori universitari di una certa età). Si mente bene: il flusso di coscienza, lo stile, la ricerca linguistica che inventa e complica e bla bla bla, voilà. Pare che l’hai letto tutto.
Con l’altra montagna di menzogna che è “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, le cose non sono così semplici, ma nemmeno impossibili. Certo, sono sette libri, ma come te che non li hai letti per intero, molti altri, e quei pochi che invece l’hanno fatto, non è che possano ricordarsi tutto, eh. Una chiacchiera sull’atmosfera, sui personaggi che girandolano tra i libri tra salotti e amorazzi franciosi, una stoccatina alle promiscuità dell’autore che magheggia sul sesso dei personaggi, ed è fatta. La stragrande maggioranza ce la fa. La stragrande maggioranza si è addormentata a pagina tre del primo libro, mentre il protagonista ci racconta come da bambino stentasse ad addormentarsi, pagine di sublime xanax.
E poi chiedere le madeleines col the, al bistrot, insieme a qualcuno su cui vuoi fare buona impressione, crea quel tanto di charme che basta e avanza, ma è raro, le occasioni così raffinate sono ormai molto quasi estinte, più facile farsi un tramezzino o un supplì in coppia, al massimo una cenetta “Ar Bucatino”, stronca qualunque resistenza al libero rilascio di libido.
Beckett è perfetto invece, facile facile. I suoi romanzi sono peggio dell’Ulisse di Joyce, come se il buon Samuel, che per un po’ gli fece da segretario, avesse raccattato pezzetti di scarto senza capo né coda e li avesse poi riattaccati a casaccio, messo un titolo (che di solito è un nome) e pubblicati. Quelli che li hanno letti per intero sono estinti. Beckett non crea problemi, appena lo citano si esclama: “Ah, beh, sì, “Aspettando Godot!”, e ciccia, scappa sempre una risatina collettiva, per passare rapidamente ad altro.
Potrei fare altri esempi, ma non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Siamo tutti complici. Questo lo sappiamo e lo facciamo tutti.
Io però qui, vorrei dire soprattutto di un’altra cosa. Che a me capita, ma non so se realmente capiti a molti altri o no, forse sì. Mi conforterebbe.
Non riuscire a finire di leggere un libro. Ma come? È la cosa più facile. Se non ti piace, smetti di leggerlo. No, non è questo che intendevo.
Io volevo dire che quando un libro mi piace tantissimo, ma proprio così tanto che, per non uscirne fuori, smetto di leggerlo, lo lascio in sospeso. Ogni tanto lo riprendo, vado avanti di poco, rileggo quello che ho già letto.
Posi, prendi, ti ci perdi, e poi per il panico che ti prende mentre ti accorgi che le pagine diminuiscono, lo metti via. Smetti di leggerlo. Lo lasci in evidenza, ma non lo leggi più, per settimane, mesi, anni. Con qualche ritorno, in cui rileggi, ci sprofondi e poi lo molli ancora, perché non vuoi che sia lui a mollare te, come in una di quelle storie d’amore assurde che finiscono perché uno lascia l’altro perché ha paura d’essere lasciato. Nella vita capita. Nella lettura, anche. Almeno a me capita. Però, in genere, agli altri sento dire, a proposito di un libro che stanno leggendo: “Non vedo l’ora di finirlo”, oppure hanno finito di leggerlo d’un fiato e: “Ci sono rimasto male quando l’ho finito. Avrei voluto che non finisse mai.” – che mi pare assurdo.
Perciò sto zitto e penso che io invece faccio in un altro modo; quando lo faccio per me è come un colpo di fulmine, il libro mi prende talmente tanto che non posso finirlo, non voglio che termini mai e perché questo avvenga, devo smettere. Sono le mie folli passioni tenute in vita come uno strambo Don Giovanni della lettura che abbandona tutte le proprie amanti per tener vivo ciò che morirebbe, e lascia che tutto canti e risuoni, ma resti sospeso per sempre, al riparo dalla fine, che sempre appartiene ad ogni cosa, alla vita, all’amore, nella realtà ma che alle vite e agli amori che i libri mi accendono, tento, con disperata passione, di evitare.
Nel tempo, però, naturalmente, non ho resistito con tutti, arriva un momento nel quale, come in una coppia di vecchi amanti, bisogna giungere alla fine e terminare, L’ho fatto, ma devo confessare con una serenità e con un appagamento, dati dalla consuetudine che nel palazzo della mia memoria e dei miei affetti si sviluppa grazie alla sospensione temporale, per cui ogni libro si è concluso senza quel trauma che, se l’avessi finito subito, avrei avuto.
Non sono molti ovviamente, le grandi vere passioni, non possono essere dissipate nella quantità. Ma ci sono e non so di qualcun altro che lo faccia.
Al momento, per dirne solo due, c’è la storia di un ingegnere che vive in tempo di pace e quella di un pittore che ha dipinto un quadro davanti al quale immancabilmente piango che non posso veder morire, che non posso finire di leggere, perché in quelle storia ancora voglio restarci, quelle storie che la carta stampata delimita in pagine, ma la mia fantasia e le mie emozioni, no. Cos’altro potrei fare?
Leggere, per cercare qualcosa di talmente bello, da doversi fermare, perché non smetta mai di scuotere la smania di esistere, oltre la vita, le pagine, sé stessi.
Articolo originale pubblicato in http://daimonwebzine.blogspot.al/2016/02/uno-strambo-don-giovanni-della-lettura.html e gentilmente concesso dall’autore.
Foto di Samuel Beckett nel testo di Roger Pic – Bibliothèque nationale de France, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16380835
Foto di Don Giovanni (dipinto di Max Slevogt) in copertina e nel testo – sconosciuta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=620033