di Gabriele Bonafede
Sprofondati nel cinismo più bieco, in Italia ci siamo dimenticati troppo presto delle bombe che anche noi abbiamo patito: questa è la prospettiva che emerge nello spettacolo di Olivia Sellerio al Biondo. In particolare Palermo fu città “mutilata”, ovvero “premiata” per aver subito una gigantesca quantità di bombardamenti a tappeto durante la seconda guerra mondiale.
Bombardamenti che furono mostruosi, eppure furono solo un capitolo di una guerra scatenata per motivi di conquista e potere sostenuti da ideologie totalitarie che non consideravano minimamente la vita umana.
Oggi vediamo altri Paesi massacrati dalle bombe, la Siria su tutte, senza la benché minima considerazione di ciò che voglia dire una circostanza del genere. Non esistono bombe buone e bombe cattive, oggi come ieri. I bombardamenti a tappeto di oggi sono persino peggiori di quelli patiti da Palermo nella primavera del 1943.
E allora, Olivia Sellerio riporta oggi, al Teatro Biondo, una pièce ben fatta per riallacciare questo tema alla coscienza collettiva attraverso il ricordo. Anzi, attraverso la rievocazione dei i ricordi familiari, riportandoli in vita. Sacrificando, quindi, i propri segreti di famiglia, le proprie storie personali, per essere quanto più chiara e coinvolgente possibile.
In “C’era un piano”, due giorni fa in prima assoluta al Biondo di Palermo (che produce lo spettacolo) e in replica fino al 17 aprile, la Sellerio cantante, e all’occorrenza anche autrice, si riaccosta al teatro con un percorso mnemonico che è anche doloroso, ma necessario.
Racconta di quella storia che tutti noi palermitani conosciamo, come Olivia, in base alle storie di famiglia: ognuna con il proprio seguito di dolori per i cari persi e per lo sconvolgimento più completo nella vita. Ognuno di noi sa. Sa quello che ci è stato raccontato da genitori, nonni, zii e prozii. Sa di quelle ore, di quei giorni, di quei mesi di angoscia passati sotto i rifugi e poi, per chi poteva permetterselo, sfollati in paesini poco distanti da Palermo.
Non a caso l’apice del pathos in “C’era un piano” arriva nel racconto della fuga da casa, al grido delle sirene, e la permanenza d’angoscia nel rifugio, sotto bombe tanto stupide quanto ignoranti. In questo Simona Malato eccelle, convogliando il pensiero ai legami d’amore con le nostre famiglie, rinsaldati in quei racconti d’orrore che oggi abbiamo dimenticato troppo presto. È un monito, sì, forse anche troppo evidente. Ma tanto necessario quanto benvenuto. Tra preghiere e filastrocche, gli adulti calmano i bambini, anche se sono più angosciati di loro.
Particolarmente riuscite la scenografia e l’impianto narrativo, tra acting, canzoni, spazi e video corredati da stupende foto di Enzo Sellerio. Non al centro, ma sempre presente , il piano di famiglia che in qualche modo diventa soggetto, e non oggetto, sulla scena.
Il piano di famiglia, sopravvisuto, dunque. Ma anche il piano militare angloamericano di replicare ciò che avevano fatto in nazisti, e anche noi italiani, nei bombardamenti a tappeto in Inghilterra e altrove: distruggere non solo gli obiettivi militari, ma anche il morale della popolazione. Bombardando a tappeto anche i civili se fosse stato il caso. Violenza a violenza, che però in quell’epoca di distruzione e genocidi finì per essere l’unico mezzo per spazzare via il nazismo.
Benché nel testo ci siano alcuni passaggi da verificare, ad esempio la distruzione di Troina fu un fatto fondamentalmente militare perché i tedeschi la trasformarono in fortezza e quindi campo di battaglia in mezzo ai civili, tutto il percorso di “C’era un piano” è di grandiosa e irrinunciabile evocazione.
È il racconto di chi ha perso la guerra, forse ancor prima di combatterla, perché in realtà non voluta, nemmeno da chi il fascismo lo aveva sostenuto, in Sicilia, per motivi d’opportunità economica e politica, o per semplice “quieto vivere”.
Il racconto di Olivia Sellerio, scritto a quattro mani insieme a un autore emergente della casa editrice Sellero quale è Nino Vetri, si dispiega tra storia raccontata, storia di libri e documenti, e storia di famiglia. Al centro c’è il pianoforte, o il piano, di casa: quello della prozia di Olivia, che sopravvive miracolosamente ai bombardamenti della primavera 1943 a Palermo. Ma anche il “piano” di guerra: quello della distruzione sistematica.
Come per tutte le famiglie di Palermo, la guerra e soprattutto i bombardamenti, segnarono una cesura tra il “prima” e il “dopo”. Segnarono , con la morte e la distruzione, una nuova era di ripudio della guerra, come fu poi giustamente sancito nella Costituzione Italiana. In particolare le famiglie borghesi, che magari si erano adagiate su una linea “non-politica” rispetto al fascismo e alle sue scelleratezze, oltre alle vite persero tutto o quasi, e comunque le proprie case nei casi fortunati di faniglie sopravvissute, spesso grazie allo sfollamento.
Tema dunque annoso, dove senso di colpa e abiura della guerra si mescolano inestricabilmente e sono ben rappresentati dai tre personaggi-chiave della pièce: la prozia musicista (Simona Malato), l’accordatore (Gigi Borruso che firma anche la regia) e il pianoforte. Contornate da musica e canzoni dell’epoca, cantate da Olivia, che ci fanno viaggiare nell’atmosfera passata con adeguata profondità.
E resta la constatazione che, oggi, di testi teatrali così densi di fatti e cose che ci portano a ripudiare realmente la guerra ce ne siano troppo pochi in scena.
Oggi parole apocalittiche e sinceramente vomitevoli come “sfere d’influenza”, “diritto di rappresaglia”, “spedizioni punitive”, “geopolitica”, matrici della politica “dell’ognun per se e la guerra per tutti”, sono tornati incredibilmente di moda come lo erano negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Con i risultati che conosciamo ma che molti hanno dimenticato.
E allora, val bene andare a vedere “C’era un piano” di Olivia Sellerio per pensarci un poco su, per davvero, e senza false ipocrisie. Perché, qualche volta, il senso di colpa è bene averlo e agire di conseguenza.
Foto di scena (in copertina e nel testo) di Franco Lannino / Studio Camera