di Gabriele Bonafede
Un respiro di sollievo attraversa il Caucaso con e Armenia e Azerbaijan che fermano le armi. E il cessate il fuoco sembra tenere, dopo essere stato annunciato alle 12.00 di oggi, anche se è ancora presto per affermare che terrà a lungo.
Da alcuni giorni si registrava una preoccupante escalation nel conflitto “dormiente” tra Armenia e Azerbaijan. Un confronto esistente fin dal 1994, quando una regione dell’Azerbaijan, il Nagorno-Karabakh a maggioranza armena, si proclamò indipendente con una sanguinosa guerra tutta interna al mondo ex-sovietico che fece 25.000 vittime e centinaia di migliaia di profughi.
Da allora, i due Paesi non hanno mai trovato un accordo di pace, ma una semplice tregua che però ha retto per più di due decenni, a meno di periodici scambi di colpi e una propaganda interna ognuna per le proprie ragioni.
Tra il 2 e il 5 aprile il confronto si è surriscaldato, con accuse dall’una e dall’altra parte nel mezzo di decine di morti e feriti reali che accrescono dolore, dramma e frustrazione. Finalmente, oggi, l’annuncio di cessate il fuoco da ambedue le parti.
Aldilà delle dichiarazioni e della propaganda in un ambiente di guerra, un dato emerge sugli altri: negli ultimi dieci anni una corsa alle armi si è prodotta da ambo le parti, con l’Azerbaijan capace di armarsi molto più potentemente, ma l’Armenia protetta da un accordo militare e potenti basi russe nel proprio territorio. La corsa alle armi è stata fatta da ambedue i Paesi presso lo stesso fornitore: la Russia di Putin. Che, come ai tempi della Russia zarista, ha attuato la politica del “dividi et impera” nel Caucaso.
Una politica opposta ha svolto invece l’Unione Europea, con il partenariato per l’Europa dell’Est volto al dialogo, alla mutua comprensione, alla cooperazione. Il partenariato europeo ha realizzato piccoli ma continui passi avanti, facendo sedere spesso allo stesso tavolo rappresentanti dei due Paesi e riuscendo anche a far trovare numerosi punti di accordo. Anche attraverso la presenza della vicina Georgia, Paese più occidentale dei tre sia geograficamente sia politicamente, che tuttavia continua ad avere buoni rapporti con ambedue i Paesi in confronto politico, e purtroppo anche militare, tra loro.
In Italia si ha una conoscenza molto limitata della storia e della situazione nel Caucaso. Poche sono le persone che sanno anche solo individuare nel Caucaso questi tre Paesi indipendenti, (Georgia, Armenia e Azerbaijan, andando da occidente verso oriente) ricchi di storia e tradizioni, di cultura, di vitalità e, nonostante tutte le difficoltà, di un certo benessere acquisito soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000. Benessere raggiunto soprattutto in larghi strati della popolazione dell’Azerbaijan che, con l’indipendenza, è finalmente riuscito a sfruttare il petrolio in proprio, anziché esserne defraudato come nei decenni di appartenenza all’URSS in cambio di un inquinamento semplicemente abissale.
Non è facile riassumere tutte le caratteristiche, la storia, anche solo recente, di Armenia e Azerbaijan. Ma un paio di ragguagli per capire la situazione è possibile.
Innanzitutto, l’Armenia è un Paese piccolo per estensione e popolazione, ma fortemente strategico e incastrato in mezzo a realtà profondamente diverse sul piano storico, religioso, culturale ed economico.
Con una popolazione di poco meno di tre milioni di abitanti e una superficie di quasi 29 800 kmq, l’Armenia ha tre quinti degli abitanti della Sicilia e una estensione poco più grande. Ma ha anche una grande diaspora all’estero, soprattutto in USA, Russia e Francia, di milioni di abitanti a partire dalla tragedia e deportazione degli armeni nel 1915 da parte dell’impero ottomano: il genocidio armeno in occidente, negato come tale dai turchi. L’Armenia ha dato i natali a grandi artisti come Aznavour e Share e anche grandi uomini e donne della cultura. Ha grandi problemi economici, aggravati da un territorio che, sebbene ricco in minerali compreso l’oro, è particolarmente difficile all’agricoltura e prono a terremoti (tremendo quello del 1988, del quale si vedono ancora i segni) e siccità, oltre ad essere senza sbocco al mare e chiuso al commercio su quasi tutte le vie di comunicazione.
Nonostante la crescita economica degli ultimi venti anni, con alcune ricadute e riprese, l’Armenia ha ancora una grande fetta della popolazione sotto la soglia di povertà (il 30% circa secondo i dati della Banca Mondiale) insieme a una piccola parte della popolazione estremamente ricca, e ancor più arricchitasi dal crollo dell’URSS a questa parte.
Gli armeni sono anche cristiani non ortodossi (come sono invece i georgiani), e la componente economica riguardante materie prime e rimesse degli emigrati (a volte molto ricchi) è particolarmente forte. La diaspora armena è fortemente occidentalizzata e questo ha un impatto anche nello stile di vita e nella cultura nell’Armenia stessa, anche se è un mondo profondamente diverso da quello degli armeni non più residenti nella Madrepatria.
L’Armenia, se si esclude la Georgia con la quale mantiene buoni rapporti, è praticamente circondata da Paesi “ostili”, e precisamente la Turchia e l’Azerbaijan stesso. Il Paese con capitale Erevan, confina anche con l’Iran, ma non con la Russia. Fa parte della vaga Unione Economica Eurasiatica promossa dalla Russia più per imposizione che per convinzione, visto che i vantaggi, se esistenti, sono assolutamente teorici per l’Armenia se non nei legami dei grandi gruppi industriali e minerari quasi sempre di proprietà russa.
Gli armeni non amano la dominazione russa, ma si sentono costretti a un’alleanza militare accettando una grande base armata di Mosca nel proprio territorio, al fine d’essere protetti dai vicini turchi e azeri. La Russia, di contro, non tratta benissimo gli armeni né dal punto di vista economico né, spesso, da quello politico. Gran parte dell’economia armena è in mano a oligarchi russi e il prezzo delle forniture d’energia importate è modulato seguendo le esigenze russe. Basti pensare che pochi mesi fa la Russia ha aumentato le tariffe dell’energia facendo scoppiare una veemente protesta della popolazione.
L’Azerbaijan, con capitale Baku, dove il premier ha la maggioranza addirittura totale in parlamento (100% dei deputati) e la libertà di stampa è molto limitata in stile russo, ha portato avanti una politica e una diplomazia su tre ambiti fondamentali, se non quattro.
Uno, dettato dalla stessa etnia e simpatia della popolazione, è quello di vicinanza alla Turchia. Gli azeri parlano infatti una lingua vicina al turco, anche se scritta in maniera differente. E la popolazione azera è fortemente inclinata verso Turchia, Paese dei quali si sentono fratelli, anche sul piano religioso. Sono mussulmani, anche se in gran parte atei come in tutti i paesi dell’ex-URSS.
Un secondo piano diplomatico azero è dettato dalla presenza della vicina e potente Russia. Comunemente gli azeri, come molti armeni, non hanno grande simpatia per la Russia, ma si rendono conto che affrontare un eventuale conflitto su larga scala con l’Armenia sarebbe pura follia, perché provocherebbe la temibile reazione russa. Dal punto di vista geografico e miliare, infatti, l’Azerbaijan è difficilmente difendibile da un’eventuale aggressione russa.
Basta guardare la mappa e le dimensioni dei due Paesi. Così, anche se ha una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti, 3-4 volte più popoloso e militarmente ed economicamente molto più potente dell’Armenia, non si è mai arrischiato a riprendere il territorio del Nagorno-Karabakh dopo la guerra del 1994
Il presidente Aliev ha sempre cercato di mantenere buone relazioni, sia politiche che commerciali, con la Russia, pur disputando il territorio della regione contesa con l’Armenia, sostenuta militarmente proprio dalla Russia. A volte, se non spesso, ha sacrificato il sentimento antirusso e anti-armeno del proprio popolo, e di vicinanza ai turchi, sull’altare della realpolitik.
Le cose però sono cambiate radicalmente da pochi mesi, cioè da quando, con l’intervento russo in Siria, la Turchia è diventata un “target”, e un nemico, della propaganda russa, trascinandosi dietro una ulteriore antipatia per la Russia da parte della popolazione azera.
La terza linea diplomatica dell’Azerbaijan è quella di mantenere, o comunque cercare di migliorare, le proprie relazioni con l’occidente e l’UE, pur non cedendo su questioni riguardanti i diritti umani e altro. In questo quadro le relazioni con la Georgia sono migliorate negli ultimi anni con grande beneficio per l’economia dei due Paesi. L’Azerbaijan ha intrapreso anche una serie di progetti di cooperazione con molti Paesi dell’UE, anche nel settore dominato dalla sua economia, e cioè il petrolio, l’energia e le industrie collegate.
Considerando quanto sopra, l’atteggiamento di potenza “mediatrice” della Russia è poco credibile. Se avesse realmente voluto la pace tra i due Paesi, la Russia avrebbe dovuto negare armi ai due governi, invece le ha fornite a piene mani per anni, pur sapendo che sono utilizzate per un confronto diretto e una corsa agli armamenti. Corsa decisamente vinta dall’Azerbaijan, ma opportunamente riequilibrata con le basi militari russe in Armenia e con la minaccia diretta sul lungo e difficilmente difendibile confine russo-azero.
Nel quadro attuale, c’è da sospettare che la Russia soffi sul fuoco della contesa. Per vari ordini di motivi. Innanzitutto per continuare nella politica del dividere e imperare, come fatto per secoli. Poi perché la questione è molto divisiva in Europa e soprattutto tra UE e Turchia. L’obiettivo di Putin è quello di danneggiare l’Europa e dividerla, per cui trascinare i singoli Paesi europei a prendere posizione per l’uno o l’altro Paese è un ulteriore modo per dividere gli europei tra loro e danneggiarli nella loro divisione.
Inoltre, provvedendo a dare la colpa agli azeri o agli armeni a secondo il caso e la convenienza, produce un ulteriore isolamento e indebolimento dei due piccoli Paesi, aumentando la dipendenza da Mosca.
Altro cinico vantaggio, sulla pelle delle vittime che iniziano a contarsi a decine stando alle fonti d’informazioni locali, è quello d’avere un motivo per intervenire direttamente, come fatto tante altre volte (Georgia, Ucraina, Moldavia, Siria…) e così espandere ulteriormente la propria influenza attraverso la guerra e l’orrore.
Non ultimo, alla Russia fa molta gola il petrolio azero, del quale l’URSS disponeva a piacimento sulla pelle (e l’ambiente) degli azeri fino al 1991. Se l’Armenia è, di fatto, un Paese economicamente (e spesso anche politicamente) dipendente dalla Russia, l’Azerbaijan lo è molto meno. E in una prospettiva, già iniziata, di confronto con la Turchia, isolare e inglobare, almeno economicamente, l’Azerbaijan è il primo di un obiettivo strategico più ampio e di lunga durata. L’Azerbaijan rappresenta inoltre un territorio con una buona fornitura di derrate alimentari, al momento in grande penuria in Russia a causa delle autoimposte sanzioni nei confronti di Ucraina e Occidente e, da pochi mesi, anche della Turchia.
È dunque più credibile la tesi che la Russia abbia convinto separatamente i due Paesi a riattizzare la contesa sul Nagorno-Karabakh e che continuerà a farlo con i già rodati metodi di diffusione di raccapriccianti notizie oculatamente false e tendenziose.
Credere all’atteggiarsi di Putin quale mediatore tra Armenia e Azerbaijan è come credere che la strega della casa di marzapane voglia aiutare e salvare la pelle di Hansel e Gretel mentre questi litigano.
La verità è che se li vorrebbe mangiare tutti e due e che, come nella favola dei Grimm, l’unica speranza di armeni e azeri è di aiutarsi a vicenda per uscire fuori da questa situazione. E forse questa soluzione non vale solo in una favola. La realtà, per quanto sempre più dura dei racconti, sta prendendo una piega simile a quella scritto dai Fratelli Grimm per Hansel e Gretel: la tregua annunciata oggi lascia ben sperare.
Anche perché, Armenia e Azerbaijan non si sono trovati soli. Il lavoro svolto dalla Unione Europea in tanti anni di partnership e dialogo sembra dare i suoi frutti. E, dall’altro lato, Iran e Turchia, altri due potenti vicini, hanno ben lavorato per spegnere quanto prima le fiamme dell’incendio.
Speriamo che la tregua tenga a lungo e che, anzi, i due Paesi, ambedue ricchezza per un mondo di pace nel futuro, sappiano trovare un accordo duraturo che sia simbolo di un progresso della pace anche laddove esistono ataviche dispute territoriali, etniche e religiose.