di Pasquale Hamel
“Riponi in uno stipetto un desiderio. Lascia passare un po’ di tempo, poi aprilo: vi troverai un disinganno”. Luigi Pirandello.
Aldo Sinesio era un ragazzone imponente, un po’ svogliato ma con tanta voglia di fare cose nuove: un creativo, si direbbe oggi. La sua storia è quella di tanti giovani che dall’estremo sud d’Europa, Porto Empedocle è a due bracciate dall’Africa, si spostano a cercare fortuna o, ed anche questa è una legittima aspirazione, a cercare la realizzazione dei propri sogni.
Di questi, alcuni riescono. È il caso Camilleri sfuggito al proprio destino che forse l’avrebbe relegato ad una quotidianità borghese, altri restano al palo perché i loro sogni si spezzano sul nascere, altri infine, ed il caso di Aldo, sembrano avere colto quell’obiettivo che però, tragico destino, come un’anguilla sfugge inspiegabilmente dalle loro mani.
È proprio questo il caso del giovane che era andato a Roma per realizzare un sogno, fare il suo ingresso nell’allora fantastico mondo di Cinecittà. Non sto a raccontare delle vicende che segnarono il suo iniziale soggiorno romano fatto di piccole esperienze da cineasta nel mondo del documentario, racconterò invece ciò che successe nella sua (e mia) pirandelliana terra natia, anche perché il contesto ambientale in cui avvenne è sempre il paesello del cuore.
L’apprendistato di Aldo fu abbastanza rapido tanto che, fulmine a ciel sereno, un giorno dell’ormai lontano 1962 a Porto Empedocle piombò la troupe che avrebbe dovuto realizzare il primo lungometraggio con regia proprio di Aldo Sinesio. Immaginiamoci, in un luogo così periferico, cosa ebbe a significare l’arrivo di quei veicoli carichi di attrezzature cinematografiche ma, soprattutto, la presenza di volti che si erano visti solo nelle sale cinematografiche e che avevano fatto fantasticare gli spettatori. Certo, non erano volti più noti, ma erano in ogni caso parte di quel mondo vagheggiato che si era dato il compito di rendere possibile la fuga da un “reale” spesso doloroso.
A incuriosire più di ogni altra cosa era soprattutto il giovane Aldo in tenuta da “regista” che si muoveva con una fiammante “duetto” rossa con al fianco la bella attrice protagonista. Si trattava di Blanche Cardinale, sorella della più famosa Claudia. Ma non incuriosivano meno, lasciando a tutti a bocca aperta, attori già famosi come Lilla Brignone o che, di lì a poco, sarebbero stati famosi come il giovane Lando Buzzanca.
Era il mondo patinato del cinema che scendeva dall’empireo di Cinecittà per volgarizzarsi fra la gente comune di un piccolo centro del Sud. E di quella gente comune, a parte le tante comparse ben pagate, ce n’era stato qualcuno, come l’aitante Gino Stornaiolo ch’era stato assunto come attore a tutti gli effetti. Per mesi, cioè per tutto il tempo della lavorazione del film, il Paese fu trasformato, con grande disappunto di molti benpensanti, in un grande set e si sentì, in qualche modo, al centro del mondo.
Quel film dal titolo intrigante, “Tutto il bello dell’uomo”, fu girato in poco tempo e toccava un tema caldo: parlava di mafia quando ancora di quel problema drammatico se ne parlava molto poco e sempre con molta circospezione. Era un film provocatorio, vagamente neorealista, forse inadatto al tempo e tuttavia dignitoso: la fotografia era bella, la storia apprezzabile, la recitazione sicuramente di buon livello. Di questo posso personalmente testimoniare visto che, nonostante la mia giovane età, e nonostante il divieto per i minori di diciotto anni giustificato da qualche scena per allora spinta – ne ricordo una in cui la stupenda Cardinale in costume succinto abbracciava sensualmente il protagonista con sullo sfondo il mare – potei assistere a una delle visioni al cine teatro Mezzano.
È amaro leggere, oggi, su ComingSoon.it, sito molto dettagliato che offre notizie sulla produzione cinematografica italiana: “Tutto il bello dell’uomo, scritto prodotto e diretto da un occasionale cineasta siciliano, il film non superò i confini regionali…non se ne sa nulla”. Una sorta di epitaffio con il quale veniva liquidato il sogno di Aldo Sinesio. In effetti, il film era troppo azzardato per il tempo in cui fu girato e la lobby della produzione cinematografica era disinteressata a soggetti di questo genere, preferiva altro. D’altra parte, è questo è pur penoso dirlo, Aldo non apparteneva allo stuolo di artisti e intellettuali che pur di sfondare si facevano profeti di certe visioni politiche. Un po’ per educazione ricevuta, un po’ per vissuto maturato, restava sempre se stesso e, questo, era di per sé scandalo che certo mondo non poteva accettare.
Aldo fu verghianamente un vinto, almeno in quello sforzo “pirandelliano del sogno (ma forse no)” che gli costò molto di quel che aveva. Certo, si rifece in parte facendo il produttore musicale, ma il suo sogno vero rimase lì in quella pellicola che solo in pochi abbiamo visto e che, certamente, quasi nessuno mai vedrà.