di Giusi Andolina
Arriva a Palermo la rassegna monografica “Antonio Ligabue (1899-1965). Tormenti e incanti”. La mostra, ospitata dal 19 marzo al 31 agosto 2016, nella sala di Duca di Montalto del Palazzo Reale, come si legge nel comunicato stampa, intende far conoscere i diversi esiti dell’opera dell’artista, nel corso della sua attività (dagli anni Venti al 1962), declinati nelle diverse tecniche attraverso le quali Ligabue si è espresso.
La figura di Ligabue ha raggiunto una grande popolarità tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, grazie allo sceneggiato Rai di Salvatore Nocita andato in onda nel 1977, 12 anni dopo la morte dell’artista, e all’intensa interpretazione di Flavio Bucci. E non solo per la sua arte, allora pressoché sconosciuta al grande pubblico, ma anche perché ha rappresentato l’emblema del riscatto della malattia mentale proprio negli anni in cui Franco Basaglia portava avanti la battaglia civile che ha riconosciuto, in Italia, la dignità del malato di mente, culminata nella legge 180 del 1978.
Chi meglio di Ligabue, con la sua esistenza segnata dal trauma dell’abbandono, dal disagio psichico e dall’emarginazione, avrebbe potuto simbolizzare questo cambiamento epocale della società italiana di quegli anni?
Sì, perché “El matt”, come lo chiamavano a Gualtieri, paese sulla riva del Po dove Ligabue ha trascorso parte della sua vita, ha vissuto un’esistenza tormentata. Figlio di una ragazza madre emigrata in Svizzera, fu successivamente affidato a una famiglia svizzero tedesca, una coppia indigente, costretta a spostarsi di continuo in cerca di lavoro.
Inizia così per Ligabue una esistenza difficile, fatta di trasferimenti, vagabondaggi, violenze e abbandoni che sfoceranno in ricoveri in cliniche psichiatriche e manicomi, tra fughe e tentativi di recupero.
Espulso dalla Svizzera, per i suoi comportamenti asociali, si stabilisce a Gualtieri, dove vive come vagabondo, disegnando e creando piccole sculture d’argilla. Scoperto e aiutato dal pittore e scultore Mazzacurati e dallo scultore Mozzali, lentamente la sua attività pittorica subisce un miglioramento e la sua fama si allarga.
L’arte diviene per Ligabue la risorsa che gli permetterà di innescare un percorso verso la resilienza, di restaurare una dignità e un rispetto che sembravano perdute, pur rimanendo sempre il “buon selvaggio” della pittura italiana, un personaggio diverso, strano che vive in condizioni estreme e precarie.
In Ligabue, il materiale artistico si fa voce narrante, trasformando il suo passato da reietto e la sua sofferta alienazione, in incantate visioni dai colori brillanti, abitate da bestie feroci e da scene di vita contadina.
È un mezzo potente la sua arte, che lo aiuta a ripristinare quel “luogo sicuro” che non ha mai avuto, luogo a cui appartenere, dove trasformare la difficoltà in affermazione alla vita.
Tra gli alberi e le nebbie della Bassa Padana prendono vita e corpo le sue belve feroci: c’è la tigre con le fauci spalancate, c’è il leopardo assalito da serpenti, ci sono cani in ferma e galli in lotta, nell’eterno gioco tra predatore e preda. C’è un’arcaica complicità con la natura e con le bestie. Sono immagini create “vive”, perché il livello di proiezione con esse raggiunge una grande intensità. “Io so come sono fatte anche dentro” diceva delle bestie, perché le sente e le comprende più degli uomini.
Una pittura vitale, ingenua, densa e squillante, fatta di dettagli minuziosi e di violenza ancestrale, di paura e di eccitazione che si colgono nel segno graffiante, nei tratti nervosi, nelle linee frantumate, nelle pennellate dense e fortemente espressive quasi a voler sottolineare il bisogno urgente dell’ideazione.
Negli autoritratti, questa urgenza si legge nel volto spesso abbozzato, caratterizzato da una deformazione espressionistica, reso con pochi ma intensi tratti. A sottolineare lo stato psicologico ed emotivo dell’artista è, tuttavia, la cura per i particolari dell’abbigliamento. Quasi volesse restituire al suo ritratto, e quindi a se stesso, la dignità e la considerazione che ritiene gli debbano essere riconosciuti come persona e come artista. Autoritratti che però, a suo dire, non vengono mai somiglianti. Decide così di modificarsi il profilo del viso a sassate al fine di renderlo più simile al volto dipinto.
I suoi lavori sono stati accolti e trattati, da subito, come “oggetti d’arte”. E questo riconoscimento del suo messaggio espressivo-comunicativo ha rappresentato, per Ligabue, una dichiarazione di presenza e di relazione con il mondo che lo circonda.
Con le ottanta opere in mostra a Palermo viene proposto ai visitatori un excursus storico e critico sull’attualità dell’opera di Ligabue che, seppur incentrata su pochi temi sempre ripetuti e sempre rinnovati, in un linguaggio figurativo che parla di cose semplici, rappresenta ancora oggi, e forse soprattutto oggi, una delle espressioni più interessanti del nostro Novecento.
Immagine di copertina: Antonio Ligabue, Autoritratto con mosca