di Francesco Randazzo
Chi non ricorda quelle mensole nei salottini di quarant’anni fa, con quei libri dalla costola marrone e i caratteri dorati, che davano un tono serio e il sentore di letture praticate con solerzia da casalinghe, operai, impiegati, segretarie, studenti? Chi non li ricorda è molto giovane, ma forse li avrà intravisti in qualche vecchio tinello di famiglia.
Erano gli anni sessanta e settanta, quei libri erano le raccolte di “Selezione dal Readers Digest”, formula editoriale d’importazione americana (lì dagli anni quaranta). In Italia dal 1959, nel periodo, quindi, in cui la televisione cominciava ad acculturare il pubblico da Nord a Sud, e a rendere l’italiano una lingua finalmente parlata da tutti o quasi, quei libretti diffondevano in modo semplice e accattivante, stralci di letteratura, germi di curiosità, aiutavano ad una alfabetizzazione culturale che, pur nel suo semplicistico porgersi, dava tenerezza e aveva un senso proprio per la popolarità che aveva. Altro merito erano le offerte di abbonamenti a prezzi accessibili, e il giradischi stereo a prezzo stracciato, anche a rate, che ti inviavano a casa insieme a 10 dischi a 33 giri di musica classica.
Generazioni di italiani, compreso me, hanno cominciato così, spulciavo le raccolte di mia madre; dopo un po’ non mi bastarono e passai decisamente ai libri in edizione originale. Molti sono passati a leggere i libri per intero, ad ascoltare musica (non solo canzonette) come abitudine consolidata. Erano i tempi in cui tutti i padri e le madri ambivano che i figli si diplomassero e persino si laureassero, diventando migliori, emancipandosi con un salto di qualità culturale e professionale che avrebbe dato senso e gioia alle vite di duro lavoro che avevano vissuto i genitori. Si riempivano gli scaffali del soggiorno, con “Selezione”, con le enciclopedie per i figli, anche queste comprate a rate, messe in bella mostra a dire “qui si studia”, “qui vogliamo migliorare”. Molti di quei figli infatti hanno studiato, si sono diplomati, si sono laureati, hanno compiuto il salto sociale, sono diventati quel che nella stragrande maggioranza i loro genitori non avevano potuto essere.
Da qui, lentamente, con una auspicabile consequenzialità, ci si sarebbe aspettato che la lettura, insieme allo studio e anche dopo il corso scolastico, crescesse come abitudine, sempre più diffusa e consolidata.
Non è successo.
La televisione da scuola d’intrattenimento ed educazione popolare, è diventata sempre più luogo di commercio e smercio per contenuti sempre più vuoti ma accattivanti, facili, populistici, dilavatori di cervelli e coscienze. I figli laureati hanno avuto altri figli, meno laureati, spinti più che all’educazione, più che alla cultura come mezzo di crescita e arricchimento personale, al far qualcosa che portasse soldi, sempre più soldi. E in un paese nel quale, comunque da sempre “la raccomandazione” è valsa carriere altrimenti impossibili, quei genitori, consapevolmente o meno, attraverso la loro delusione, hanno ammesso a se stessi che forse era meglio che i figli imparassero a sfangarsela con un accurato marketing d’immagine e non per quel che realmente erano, o sarebbero potuti diventare.
I reality show hanno dimostrato che non saper far niente può renderti famoso e ricco; internet (che pure è un mezzo straordinario) è diventato l’alibi per non sapere nulla e credere a tutto, senza nessuna verifica critica, perché tanto serve a niente ed è più vero un fake condiviso un milione di volte che una verità con poco appeal e nessuna risonanza mediatica.
Siamo arrivati, dunque, dopo tre generazioni, al paradosso, di quello che viene chiamato “analfabetismo di ritorno”. A parte l’altissimo numero di abbandono degli studi universitari, quelli che ce l’hanno fatta, praticamente non leggono quasi più, non studiano, non si aggiornano, e dopo anni di abbandono, praticamente non sanno quasi più né leggere, né scrivere.
Gli indici nazionali di lettura sono bassissimi. Dai sondaggi le risposte di spiegazione da parte dei non lettori sono grosso modo, principalmente due: – non mi serve/non serve a niente/non mi seve più – e – non ho tempo.
Quindi leggere è passato ad essere, da un investimento del tempo ad una perdita di tempo.
Iniziative di marketing di disperata imbecillità ne abbiamo visti nascere e morire nel volgere di un soffio di vento, dai libri quadrati a forma di cd, a quelli che si leggono in orizzontale, tentativi imbarazzanti, e falliti.
Ma ecco che con una bella capriola all’indietro, dopo qualche anno dal fallimento di “Selezione dal Readers Digest”, spuntano i “Distillati”, belli, super pubblicizzati, rapidissimi. La metà del tempo.
Bene, si potrebbe dire, ricominciamo, riproviamoci, qualcuno verrà acchiappato dalla lettura, dopo un po’ vorrà di più.
Non è così, non sarà così, non c’è nessuna spinta “educativa”, soltanto un’idea di marketing per gente stanca e pigra, te la spiccio io, con poche parole. Tanto più che, proprio nella promozione di questa distilleria, si rimarca con forza e con un bel giro di parole, che non si tratta di riduzioni, adattamenti, ma appunto di “distillati”, riscritture che esalano la grappa cartacea, un bicchierino e sei giù ubriaco di letteratura, ci pensano loro a propalarti il meglio, facile, che scende giù e appaga.
Un bel fallimento per una delle nazioni più ricche di cultura e arte del mondo, un solenne fallimento, per un paese che vede i migliori andare via o restare schiacciati da un sistema di non meritocrazia assolutamente radicato. Nel quale, alla fine, leggere non serve, però un pochetto sì, una sveltina libresca mette la coscienza a posto. Distillati per peccatori d’ignavia mentale.
Quello che cinquant’anni fa era una spinta in avanti, oggi è un enorme passo indietro. Una riduzione ai minimi termini di ciò che dovrebbe essere un ampliamento ed uno stimolo al raggiungimento dei massimi termini personali e sociali. Impoverire la lettura, significa, brutalmente, eliminare parole, quindi concetti articolati, idee, coscienza, critica. Cui prodest?
Perché, per attirare lettori, i grandi non pubblicano e pompano come novità straordinarie, nuove, moderne, rapide anche, i libri di racconti, classici ma soprattutto contemporanei migliaia, bellissimi, rapida e abilissima sintesi compiuta di storie, parole e pensieri. E potrebbero essere anche un trampolino a letture più corpose.
Basterebbe la stessa campagna pubblicitaria, applicando la stessa spinta d’appeal e marketing.
Sarebbe un bel salto in avanti, invece no, la scusa è che non si vendono. In realtà non si vendono perché non si vedono come e quanto si potrebbe farli vedere e conoscere.
In Francia, per dirne una, le ferrovie mettono a disposizione dei viaggiatori una biblioteca gratuita di centomila titoli, perché sul treno il tempo di leggere c’è. In Italia siamo ancora al problema enorme dei treni locali gestiti come carri bestiame e solo Le Frecce di mille colori hanno il wifi. E poi, chi legge libri in digitale, pochi, pochissimi, troppo difficile e complicato (sic).
Più efficace vendere un libretto svelto che qualcun altro dice di aver reso perfetto per le tue esigenze di lettore gazzella che ogni giorno si sveglia per fuggire dal leone del proprio pensare.
Più facile vendere grappa di Buddenbrock o un Martini Fitzgerald. Il resto si butta, anzi evapora via per naturale processo editoriale di distillazione.
Risuonano oggi, più sinistre e attuali che mai queste parole:
“Noi non vogliamo convincere le persone delle nostre idee, noi vogliamo ridurre il vocabolario, in modo che possano esprimere soltanto le nostre idee.”
Funziona. Pare l’abbia detto Goebbels.
Articolo originale pubblicato in http://daimonwebzine.blogspot.it/2016/02/grappa-di-dostoevskij.html e gentilmente concesso dall’autore.
infatti, ricordo con piacere non soltanto i libri della Reader’s digest ma, naturalmente, anche tutta quella che ai miei tempi era chiamata “letteratura” per l’infanzia e che non era formata dalle classiche fiabe e favole, a loro volta condensate. I Defoe, gli Swift, Twain, Raspe e lo stesso Collodi, con Salgari che noi ragazzini d’allora leggemmo in versioni ridotte se pur in una lingua che oggi, ai nostri figli e nipoti, appare comunque aulica. Chi, come me, s’è poi divertito a leggere le versioni integrali ha anche compreso che non si trattasse quasi mai di letteratura per bambini ma il difetto essenziale stava proprio nella riscrittura. Impossibile mi viene il pensare che possa avere un senso reale, se non della spicciola diffusione (ma so bene che il ragionamento è commerciale), leggere uno stile che non è affatto quello dell’autore e ciò a prescindere dai già ostici approcci con le traduzioni.