di Paquale Hamel
Il ricordo del maestro, almeno per chi come me appartiene ad un tempo passato, è un’immagine che generalmente si cancella con difficoltà dalla memoria, un’immagine indelebile che spesso si ritorna a fissare con gli occhi velati dalla nostalgia o dal rimpianto. A maggior ragione se quella figura, così importante nella formazione di un giovane, coincide con una personalità forte e, per certi aspetti, pressoché unica.
Il maestro Trento De Franciscis, questo era il nome del mio e anche maestro di numerose generazioni di giovani empedoclini, era un personaggio che sembrava uscito dalle pagine di De Amicis, carico com’era di quei valori umani che oggi, purtroppo, sembrano dimenticati.
Era un uomo imponente, almeno così lo vedevano noi alunni, con un vocione imperioso da far tremare i vetri, che metteva in soggezione anche il più spregiudicato della nostra classe. Era il maestro per eccellenza della scuola Pirandello, l’edificio scolastico alla fine di via Roma dedicato, appunto, al più famoso figlio della città. Per questo motivo i genitori facevano a gara per assicurare al proprio figlio un posto nella classe del maestro De Franciscis e tutto perché erano certi che, per quanto fossero disinteressati allo studio, qualcosa del suo insegnamento sarebbe sicuramente rimasto.
Io lo incontrai per la prima volta alla terza elementare, le prime due classi le avevo fatte in casa e per essere ammesso da esterno fui sottoposto ad un piccolo esame di scrittura con l’anziana maestra Rosa Nuara. Nonostante la mia innata timidezza, che avrebbe dovuto essere ulteriormente accentuata da quell’omaccione con cui mi venivo a confrontare, ricordo che mi adattai subito perché il maestro De Franciscis aveva anche il dono della bonomia: un burbero che, al momento giusto, sapeva tirare fuori delle qualità nascoste che mettevano tutti a proprio agio.
In quella classe affollatissima, eravamo trentacinque, con qualche ribelle, uno in particolare che di studio e disciplina non ne masticava più di tanto, il silenzio regnava sovrano. Allora, infatti, si usavano metodi sbrigativi ma efficaci, che oggi definiamo sbrigativamente repressivi, come un sano scappellotto o il “buttare fuori” dall’aula, e De Franciscis sapeva farne buon uso senza che questo costituisse scandalo o che qualcuno protestasse per fantomatiche violazioni di diritti.
Ricordo che un giorno, un nostro compagno, che aveva disturbato per tutto il tempo e aveva disobbedito all’intimazione di uscir fuori, si era attaccato al banco: una sfida alla autorità del maestro che non poteva essere accettata senza che ne soffrisse la sua autorevolezza. De Franciscis, senza perdersi d’animo, l’aveva sollevato con tutto il banco e l’aveva buttarlo fuori dall’aula. Un fatto che ci aveva lasciati allibiti e aveva dilatato in noi tutti l’idea di forza che quell’uomo esprimeva.
Una delle cose più simpatiche che accadevano erano le considerazioni al limite del pecoreccio, scrivo al “limite” perché mai andava oltre il consentito per le nostre orecchie di ragazzini della fine degli anni cinquanta, nei confronti della direttrice scolastica, la mitica e autoritaria Nicolina Piro. Che, con la sua voce particolare, rilanciava attraverso l’altoparlante istallato in ogni classe, dettava regole comportamentali. Il maestro, infatti, commentava spiritosamente ogni battuta della sua “capa” trovandoci sempre quelle defaillance che scatenavano le nostre risate.
Il suo momento clou era tuttavia il saggio ginnico che ci vedeva maschi e femmine, allora c’era una rigida divisione e nessuno si sarebbe sognato di pensare a classi miste, di tutte le classi nel vasto sterrato della cosiddetta piazza Sant’Ugo. Scrivo cosiddetta perché non era altro che l’area sulla quale fino al 1943, anno in cui le bombe la rasero al suolo, insisteva una grande caserma. Al maestro De Franciscis toccava il compito di dirigere, da un trespolo che si alzava per un paio di metri al di sopra delle nostre teste, la marea di ragazzini e ragazzine in maglietta bianca e pantaloncini o gonne blu che si esibivano davanti alle autorità locali in esercizi ginnici a lungo provati nel corso dell’anno scolastico. Ci metteva un impegno che lasciava a bocca aperta anche i meno interessati a quelle esibizioni.
Per De Franciscis l’insegnamento era una missione, un impegno che lo coinvolgeva totalmente e che non si esauriva col classico suono della campanella che segnava la fine del giorno di lezione. Di questo ce ne rendevamo conto, come se ne erano resi conto coloro che ci avevano preceduti, giorno dopo giorno e ci faceva sempre più apprezzare lo spirito di quell’uomo che voleva ad ogni costo meritarsi la stima non solo nostra ma anche di chi ci aveva affidato alle sue cure.
Con questo impegno con questa passione ci accompagnò fino alla conclusione del ciclo delle elementari che allora prevedeva una verifica importante, l’esame di ammissione alla scuola media. Chiunque, al suo posto, ci avrebbe salutati, augurandoci magari buona fortuna, affidando alla responsabilità di ciascuno di noi il compito di ripassare tutto per la prova che si sarebbe svolta di lì a qualche mese. Chiunque, dicevo, ma non il maestro De Franciscis che sentiva quella responsabilità anche sua. Ecco perché in quei giorni di trepida attesa, riuniva a casa sua quelli che eravamo disposti ad impegnarci.
E , sotto la sua vigile guida, ci dovevamo impegnare a ripassare le materie sulle quali avremmo dovuto dar conto alla commissione d’esame. Lo ricordo, mentre noi tutti stavamo attorno al grande tavolo da pranzo di casa sua, che si aggirava a controllare i compiti, che dettava a voce alta le biografie storiche o i problemini di matematica, senza stancarsi, serio, impassibile ma, sotto sotto, felice di compiere fino in fondo il proprio dovere.
Di quel quadernetto, che avrebbe raccontato quell’avventura, cioè gli appunti di De Franciscis, non ho trovato più traccia. Chissà dove è andato a finire. Mi avrebbe fatto piacere riaverlo fra le mani anche per un piccolo profilo di Pirandello che mi piacque in maniera particolare, tanto che alla fine scrissi qualcosa come “anch’io voglio essere come Pirandello”. Ricordo che il maestro si soffermò sul mio commento, sorrise compiaciuto, e con il suo accento siracusano si lasciò andare ad un “ ’nna fari di strata ! “.
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