di Gabriele Bonafede
Leandro Picarella propone il suo primo lungometraggio al Centro Sperimentale del Cinema sede di Palermo con un documentario che ha già guadagnato la presenza a prestigiosi festival. Si tratta del film “Triokala”, immerso nel particolare rapporto tra uomo, natura, tradizioni e religione che esiste nel centro di Caltabellotta, in provincia di Agrigento.
Conobbi Leandro nel 2013, quando ebbi la fortuna di presentare, credo per la prima volta, un suo lavoro. Infatti era il primo corto che realizzò come workshop di primo anno nei suoi studi al CSC di Palermo. Era uno dei film che proposi all’unica edizione del LinkPollina Cinema (2013): “Scolpire il tempo” in co-regia con Riccardo Cannella. Il cui soggetto, in un filmato di pochi minuti come da prima esperienza pratica di studi, era un uomo che si faceva pietra.
Nello stesso solco è Triokala, inframezzato da un film dalla poetica diversa dal primo, sulla fondamentale figura di Danilo Dolci. E cioè “Dio delle zecche” (diretto insieme a Giovanni Rosa) che ha partecipato nel 2014 anche al festival di Salina diretto da Giovanna Taviani.
In Triokala, incantevole documentario lungometraggio di circa 65 minuti, Leandro riprende il tracciato creativo segnato fin dall’inizio con “Scolpire il tempo”, sia nei contenuti, sia nel linguaggio artistico. Maturando, come è giusto che sia, un approccio più globale e narrativo con una crescita tecnica ed espressiva che merita molta attenzione. Il giovane regista mantiene l’idea di base, e cioè la trasformazione dell’apporto umano in termini di totale immersione materica nella natura: scolpendosi quanto più possibile all’interno di essa, compreso il chiaroscuro dell’elemento umano, interno-esterno al tutto.
Il talento di Leandro è colto da Roberto Andò, direttore didattico del CSC-Palermo, che giustamente commenta “Penso che sentiremo parlare di Picarella nel prossimo futuro”, mentre presenta la visione a un folto pubblico, un paio di giorni fa nella sala del CSC.
Sono tanti i pregi di Triokala. Innanzitutto, ed e ciò che più colpisce fin dai primi minuti, è l’utilizzo del suono quale orchestra naturale degli elementi che compongono visione e narrazione. L’utilizzo virtuoso del suono quale elemento centrale della comunicazione e narrazione ricorda un altro film siciliano che ha avuto grande apprezzamento nella critica francese e cioè “Salvo”, sebbene con contenuti, plot e genere, profondamente diversi.
In Triokala il suono quale protagonista, vero e proprio ruolo attoriale d’insieme, è sbalzato ancora di più creando un rapporto triplice: tra suono-natura, suono-pressione antropica e suono-comunicazione. A cospetto del pubblico, certo. Ne nasce un’orchestra che porta facilmente a quelle parole di Bosso all’ultimo festival di Sanremo, seguite dall’emozionante esecuzione dello stesso nel suo “Following a bird”.
Picarella segue quell’usignolo lasciando la musica amplificata al naturale, riducendo al minimo l’intervento parlato e con questo recuperando una realtà più che concreta al documentario.
Ma Triokala non è solo questo. “De Seta è per me un modello”, dichiara prima della proiezione. E si vede. Seguendo quell’usignolo, Leandro salta sulla storia del documentario antropologico nel reale mondo contadino, codificato da De Seta e descritto in chiave storica da un fondamentale documentarista siciliano quale è Salvo Cuccia, non a caso presente alla proiezione di Triokala a Palermo.
Continuando anche questo tracciato, Triokala entra nella ricerca antropologica a pieno titolo, snodando il racconto di suoni, storie e gesti, attraverso un gruppo di personaggi reali che partecipano al suono-orchestra. Tanto da convogliare l’attenzione al secondo protagonista, forse il più vero dell’esperienza, e cioè Caltabellotta stessa. Non a caso il titolo del film è il leggendario nome della località da dove meglio si vede e si sente la natura e la chiaroscurata pressione antropica attorno ad essa: l’antico picco sopra il Paese. Da lì è girata gran parte del film.
I personaggi umani scelti sono emblematici del mondo raccontato nel film. Innanzitutto un ragazzo che partecipa sia alla raccolta delle olive, in tempi odierni e non antichi, sia alla fatica della preparazione nella festa del Paese.
Poi il “santone”, terapeuta o “guaritore” della zona, che vive in condizione per così dire semiselvaggia nella campagna, e dispensa aiuto morale e materiale con le sue guarigioni. Attraverso le sue mani e il suo fare, la storia ci guida nel noto esoterismo di Caltabellotta, e nell’epurazione fantasmagorica, tra religione cristiana e paganesimo, del “diavolone” radicato tanto qui come altrove.
Infine, ma non ultimi, i tratti di un popolo e le sue collettive esperienze di vita, di speranze, di nascita e morte in natura. Per questo, il finale dove appare la musica prodotta dall’uomo anziché direttamente dalla natura, amplifica la condizione di polvere che torna polvere, o pietra che torna pietra, lavata dall’acqua, insieme a paure e tensioni. Musica dei fratelli Mancuso, ovvero del trasporto corale nel mondo contadino e pastorale.
Qui non si può non pensare al finale di “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante. Ma l’effetto “purificatore” e “aperto” è forse più potente: un nuovo ciclo sembra partire dalla cenere mefistofelica, inevitabile percorso umano. Trasportata verso noi stessi dall’ancestrale pioggia di Triokala. E dall’ascesa per disperderne le ceneri a giammai, dal picco avvolto nelle nubi.