di Pasquale Hamel
Era, e continua ad essere, l’unico reperto storico che Porto Empedocle potesse vantare. Strano che in una terra così fortemente segnata dalla storia, proprio quel Paese ne apparisse quasi privo.
Si diceva che fosse una delle tante torri di avvistamento che punteggiavano la costa siciliana a difesa dalle insidie che venivano dal mare. È noto come per secoli le acque del Mediterraneo e, in particolare, quelle attorno all’Isola fossero state solcate dai legni delle agguerrite piraterie barbaresche provenienti dai porti della frontaliera Africa.
Quella torre, della quale noi del Paese eravamo tutti orgogliosi, aveva trovato nella “Strage dimenticata” di Andrea (Nenè) Camilleri che ne racconta di un tragico momento, una sua consacrazione letteraria.
E quella torre, in un tempo in cui certe attenzioni mancavano, avevamo voluto valorizzare facendone il noto, almeno per la nostra comunità locale, “Centro culturale Torre di Carlo V” di cui era anima ed entusiasta promotore, l’avvocato Alfonso Gaglio.
Un colto intellettuale locale appassionato lettore di Pirandello, a cui la fortuna letteraria non arrise come invece avvenne per il suo amico Nenè. Quell’edificio, malandato, divenne dunque luogo privilegiato di interessanti esperienze culturali: cineforum, mostre, spettacoli teatrali, dibattiti, presentazioni di libri ed eventi tutti realizzati “in economia”, senza altre risorse che non fossero la nostra passione ed il nostro impegno.
L’episodio, pirandelliano o, se vogliamo, camilleriano, riguarda una mostra che, grazie al sostegno dell’istituzione provinciale, eravamo riusciti ad allestire in una delle sale della Torre. Si trattava di una mostra di autori contemporanei (non solo siciliani) che dopo mesi di fatica e, spesso, di delusioni, incredibilmente, eravamo tuttavia riusciti a coinvolgere nella nostra iniziativa.
L’inaugurazione fu all’altezza delle aspettative, vennero in tanti soprattutto dalla vicina Agrigento e, perfino, presenziarono quelle che comunemente si definiscono “autorità”.
Un ultimo adempimento, mi aveva impedito di essere presente al momento dei discorsi ufficiali, ma non mi importava più di tanto, quel che contava era che l’evento sognato si fosse realizzato.
Arrivai, dunque, quando già la gente, ed era proprio tanta, si aggirava nella sala soffermandosi sui dipinti, alcuni per la morale del tempo alquanto scandalosi, lasciandosi andare a vivaci commenti.
Come gli altri con i quali avevo condiviso l’impegno, guardavo soddisfatto il risultato del nostro lavoro prestando poca attenzione a chi si trovava in quella sala che fino ad un mese prima, quando ancora non ne avevamo imbiancato le pareti, portava i segni impietosi delle brutte stagioni passate. Tutto mi sarei aspettato salvo che qualcuno, d’un tratto, mi prendesse sottobraccio trascinandomi in un angolino meno affollato per parlarmi. Con mia grande sorpresa si trattava di Ignazio Buttitta, proprio lui: il poeta!
Con il suo tradizionale zuccotto in testa, quel suo volto levantino, il fare istrionesco e affabulante, chissà per quale motivo, mi onorava della sua conversazione. La mia sorpresa si accrebbe col seguito della storia che sto a raccontarvi.
Ecco più o meno le sue parole pronunciate con aria sorniona.
“Sai, mi chiese, chi è il più grande pittore italiano vivente?” Non mi fece però rispondere perché, immediatamente, aggiunse: “il più grande pittore italiano vivente è Renato Guttuso!”.
Naturalmente ero d’accordo e non aggiunsi parola. Ci pensò lui incalzando con un’altra domanda. “Sai chi è il più grande scrittore italiano vivente?”. Stavolta non feci nemmeno il tentativo di dare una risposta e lui subito aggiunse: “il più grande scrittore italiano vivente è Leonardo Sciascia!”. Non potevo non convenire, amavo Sciascia e il suo culto della ragione. Attendevo qualche altra domanda e non mi sbagliai visto che subito di rincalzo, guardandomi dritto negli occhi me la pose. “E sai chi è il più grande poeta italiano vivente?” Stavo per rispondere Montale, visto che da poco era stato laureato Nobel, ma esitai. Ed allora con atteggiamento sfacciato mi fermò con queste parole: “Il più grande poeta italiano vivente è, modestia a parte, quello che ti sta accanto, sono io!”. E giù una risata dal profondo del cuore.
Non aspettavo l’epilogo che fu ancor più esilarante, trasse dalla tasca “Io faccio il poeta” un volume dalla copertina gialla della Feltrinelli editore e me lo allungò aggiungendo queste parole: “E ora ca’ sapisti cu’ sunnu i megghiu’, accattati stu’ libru pi’ disobbligariti”.
Buttitta non si sbagliava, neanche su se stesso!
Straordinaria la conclusione !
Una conclusione da grande. E un bell’articolo.