di Aldo Penna
Quanto è mafiosa la borghesia siciliana e quanta simpatia ispira ancora l’organizzazione criminale chiamata mafia o Cosa Nostra nelle classi dirigenti del sud?
Un decennio fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario l’attuale Presidente del Senato denunciava il ruolo ambiguo della borghesia delle professioni e dell’imprenditoria nel fornire logistica, intelligence e corpo diplomatico alla mafia.
Da allora immensi patrimoni sono stati sequestrati e in parte confiscati. Decine di rappresentanti di quella borghesia sono finiti in carcere non solo per avere assolto i compiti loro tradizionalmente richiesti ma per essersi persino sostituiti ai boss nella guida dell’apparato militare. Ma qual è l’origine di questo legame che appare ancora saldo anche se inabissato? Quanto è forte la seduzione del male che porta vecchi e nuovi rappresentanti di quella classe a offrire i propri servigi?
Vi sono ragioni antiche, la percezione di uno Stato lontano, di una legge non uguale per tutti, del privilegio che affiora ed è difeso da cariche che dovrebbero contrastarlo e sconfiggerlo.
Se il passato in generale permea di uomini e popoli spingendone l’indole all’ottimismo o al vittimismo, alla rassegnazione o alla ribellione, il passato della Sicilia e delle sue giurisdizioni concorrenti che regolarono il vivere civile sino quasi agli albori dell’Ottocento ha di sicuro fatto percepire al popolo comune e alla nobiltà meridionale che la giustizia è dei forti e a soccombere sono sempre i deboli.
Le corti baronali, quella del Viceré, quella del Monte di Pietà e, la più terribile, quella dell’Inquisizione formalmente vigente sino al 1782 anno in cui il potere secolare decise, ultimo in Europa, di abolirla, dirimevano in perfetta disarmonia e iniquità le controversie civili e penali.
Dopo l’unità, la faccia feroce dei rappresentanti dello Stato, invece di un progetto di rinascita o di consolidamento delle conquiste civili, spinse le classi diseredate a rivolgersi alle occulte organizzazioni che li vessavano ma avevano regole più semplici e intuibili. Anche allora la nascente borghesia e la declinante nobiltà gareggiavano a utilizzare la mafia per colpire un concorrente o sbarazzarsi di un ostacolo finendo per intessere quei legami che qualche decennio più tardi li avrebbe resi subalterni alle nuove signorie criminali.
Le cronache degli ultimi decenni hanno sempre fatto emergere il ruolo di professionisti impegnati a occuparsi non soltanto della legittima difesa penale ma dell’impiego e transito nell’economia legale degli ingentissimi capitali accumulati con traffici di ogni genere.
In ogni angolo del mondo qualunque organizzazione criminale ha sempre avuto bisogno di professionisti per evitare che le ricchezze ammassate si accatastassero in qualche barile da sotterrare invece di essere impiegate per comprare cospicui pezzi dell’economia. Individui che hanno tradito il proprio giuramento o hanno rivendicato una neutralità nel loro operare ci sono sempre stati. Quando sconfinano in comportamenti penalmente rilevanti sono etichettati come pecore nere, ma se quel colore non riguarda pochi individui ma una parte non indifferente di quel gregge siamo alla patologia di un fenomeno.
A Palermo negli anni ’80 del secolo scorso la borghesia gareggiava nel vantare amicizie e rapporti con la nobiltà criminale. Papi e Principi erano riveriti e corteggiati e nonostante fossero chiacchierati vantavano intense e fitte relazioni. Dovevano arrivare le stragi, la ribellione della società civile, la caduta violenta di quell’aristocrazia e l’irrompere dei barbari della provincia perché quei legami cominciassero a essere rinnegati.
Ma i soldi accumulati con la droga, i grandi appalti oltre alla fitta rendita del racket non potevano restare senza professionalità e competenze da coinvolgere. Sindona è uno dei primi traghettatori dalla sponda illegale a quella legale di grandi capitali. Altri meno noti seguiranno e quelle orme sono calpestate ancora oggi da nuovi e spregiudicati emuli.
Fino a quando i capitali criminali avranno bisogno di assistenza per reinvestirsi e reinventarsi ci saranno professionisti disposti ad aiutarli. Il punto si sposta quindi sulla vigilanza che le istituzioni devono esercitare per rendere più difficoltoso questo fenomeno. Studi scientifici e osservazione sul campo hanno dimostrato una relazione diretta tra diffusione della criminalità e arretratezza economica, tra inquinamento dell’economia e crescita economica, ma non sociale, di una regione. Il mito che i capitali mafiosi aiutassero la Sicilia a mantenersi a galla è sempre stata la fandonia raccontata da uomini sedotti dall’immutabilità e senza il coraggio di cambiare.
Professionisti e imprenditori catturati dai facili guadagni e dalle veloci scorciatoie dell’arricchimento hanno reso possibile ai capitali mafiosi di compromettere le radici dell’economia siciliana e meridionale.
Il riscatto è un lungo percorso che passa da una rivoluzione dei singoli, da un ruolo dinamico e trasparente delle istituzioni e da una ferma condanna della società che spesso ha ammirato il successo senza chiedersi da dove provenisse o si originasse.