di Pasquale Hamel
Donna Concettina Melluso figlia di don Vincenzo Melluso, una sorta di Buddenbrook empedoclino antenato di mia moglie, aveva accumulato ingenti ricchezze col commercio internazionale.
Nonostante la decadenza della propria famiglia, causata da scelte sbagliate dei suoi fratelli, guardava la gente dall’alto in basso con l’atteggiamento della padrona rispetto al servo. Un’altezzosità giustificata dal fatto che, se i suoi fratelli avevano perduto quasi tutto, lei conservava la sua cospicua dote che mai aveva confuso con quella del marito, anche lui commerciante di buona fortuna ma non certo così facoltoso com’era stata la famiglia della moglie. Proprio il marito, don Calogero Deleo, era di tutt’altra pasta, molto semplice e, come si suole dire, proprio alla mano, difficile capire come i due potessero stare bene insieme visto che erano il diavolo e l’acqua santa.
La storia che racconto, parte da molti anni prima che accadesse l’evento cioè quando i facoltosi Melluso potevano permettersi quasi tutto e, proprio per darlo a vedere alla gente, non lesinavano in opere grandiose. La più singolare di queste opere fu la realizzazione della tomba di famiglia. Per don Vincenzo, che peraltro per i suoi affari aveva girato mezza Europa, doveva essere qualcosa di unico, quale non si fosse vista altra in terra di Sicilia. All’architetto, fatto venire da Milano perché pare che non si fidasse della perizia dei professionisti locali, confessò il suo debole per quelle cattedrali gotiche di fronte alle quali sostava ammirato in silenzio quando si trovava in qualche città tedesca o francese.
Nello spazio che aveva comprato nel cimitero nuovo del paese, voleva infatti che si edificasse, senza tenere conto a spese, una cattedrale gotica in sedicesimo a gloria della sua famiglia e di questo suo intendimento di don Vincenzo fece partecipe la moglie Rosalia che ne fu entusiasta. L’architetto si mise subito al lavoro ben sapendo che avrebbe potuto sbizzarrirsi visto che don Vincenzo gli aveva fatto capire che problemi di danaro non ce ne sarebbero stati e che, di conseguenza, poteva largheggiare.
La cattedrale in stile gotico svettò ben presto di molto al di sopra delle gentilizie che popolavano quella parte del cimitero, è fu un edificio bellissimo degno delle fortune dei Melluso. Se infatti la facciata dava la sensazione di grandezza, l’interno la dava di fastosità essendo rivestito di marmi pregiati e decorato con preziosità. Un grande portone di bronzo, con artistici decori dava accesso all’edificio ed un altare, che imitava quello di una cattedrale, chiudeva la parete in fondo. Insomma bellezza e kitsch si incrociavano e sposavano offrendo, come peraltro era desiderio di don Vincenzo, una forte sensazione di potenza.
La cappella, se così la si voleva chiamare, fu pronta in tempo per ospitare le spoglie di don Vincenzino, un giorno di lutto per l’intero paese tant’è che le bandiere furono listate a nero e che, per rispetto al potente defunto, quel giorno fu sospesa ogni attività.
Ed ora, facciamo un salto di qualche decennio.
Donna Concettina Melluso era sul letto di morte, in quei terribili momenti che segnano il trapasso, si dice che i pensieri piuttosto che alle cose mondane siano rivolti a quelle dello spirito. Almeno così per la gente comune ma non per donna Concettina. D’improvviso, infatti, in un attimo di lucidità ella chiamò a sé il marito e i figli affranti dal dolore. Doveva dettare una sua ultima importante volontà. Chissà cosa aspettavano di conoscere marito e figli, chissà quale segreto ed invece…
Invece, niente di più inaspettato. Donna Concettina raccomandava infatti che la sua bara fosse collocata nella tomba dei Melluso perché lei non poteva essere seppellita, com’era d’uso nelle nostre parti, nella tomba di famiglia del marito che, per modestia, non rispondeva certo alla dignità della sua persona.
Immaginate lo stato d’animo di quei parenti intenti ad ascoltare quelle ultime disposizioni che suonavano non certo bene alle orecchie del marito. Eppure, essendo uomo mite e particolarmente devoto alla moglie, pur controvoglia perché rompeva una tradizione, don Calogero non contraddisse i desiderata della moglie e pregò, quindi, i cognati di accogliere la defunta nella grande gentilizia tenendo fermo, però, che lui non ne avrebbe seguito l’esempio, così che dopo decenni di matrimonio si sarebbero post mortem divisi; ognuno nella sua tomba.
Passarono gli anni, molti anni, e gli ultimi Melluso, ormai lontani da Porto Empedocle e disinteressati alla gentilizia nel locale cimitero, decisero di disfarsene. Ironia della sorte, la proprietà passò ad una famiglia completamente diversa che, pur con garbo, raccolse quanto rimaneva degli ospiti per consegnarli all’ossario comune.
Fu una sorta di rivincita di don Calogero, perché mentr’egli dimora ancora nella sua tomba, rispettato e onorato dai parenti in tutte le ricorrenze, di donna Concettina sfrattata dalla sua piccola cattedrale, non sono rimaste neppure le ossa. Ma solo una piccola cattedrale gotica di pirandelliana vicenda.
In copertina, la Cappella Melluso in stile “cattedrale gotica” al cimitero di Porto Empedolce. Foto di Pasquale Hamel.
Allura è veru ca u Signuri non lassa piccati a pirdunari!!!
Caro Pasquale, il tuo racconto sulla cattedrale gotica mi ha colpito due volte. La prima, perché è molto godibile – ma in questo, nessuna sorpresa. La seconda per i paralleli con la storia verissima della tomba di zio Giuseppino, fratellastro di mio padre. Fratellastro perché mia nonna Paolina aveva sposato in prime nozze Carlo Maria Ubaldini della Gheradesca, Conte della Pila, Marchese del Mugello e Signore della Corona d’italia; per intenderci, uno che discendeva in linea diretta dal conte Ugolino. Tutti titoli passati al figlio Giuseppe, per noi – nipotastri niente affatto nobili – “zio Giuseppino”. Noi eravamo infatti figli di Luig Barbierii, che la nonna rimasta vedova mise al mondo con un galantuomo senza una goccia di sangue blu, tale Guelfo Ludovico Barbieri. Nonno Guelfo che, venuto in Sicilia per farvi il militare, era stato prontamente ammaliato dalla bella vedova che, non potendo campare di titoli (ed essendo il defunto Conte della Pila ecc. ecc, uno spiantato) se ne andata a vivere a Licata dallo zio arciprete. La storia si allunga e ci sono di mezzo preti in odore di inferno e tante altre strane cose… ma alla fine ritroviamo zio Giuseppino di nuovo a Licata dove aveva voluto ritrasferirsi da Palermo, adesso medico, perché – a detta di mio padre che lo sfotteva – era un centro “delle dimesioni giuste per continuare a fare il Conte”. In effetti Zio Giuseppino al titolo ci teneva, tant’è che aveva il biglietto da visita double face: i titoli nobiliari occupavano la prima facciata, e dovevi girarlo per trovare anche la scritta “Medico chirurgo-Licata”. Di cosucce da raccontare ce ne sarebbero tante, ma parliamo della tomba. Lui non aveva figli e mi voleva adottare ma io, che avevo perso da poco mio padre e pensavo che ero nato Barbieri e non volevo morire Ubaldini, rinunciai all’onore e all’eredità. Puoi darmi dello stupido, l’hanno fato in tanti. Comunque in occasione di una visita a Licata lui mi disse “ti voglio fare vedere una cosa molto bella”. E mi portò al cimitero, che come forse dai è su una collinetta che sovrasta la cittadina. Si era fatta costruire una cappella-capolavoro, tutta marmi, forse la più bella del cimitero ma soprattutto… con una vista bellissima. “Che te ne pare? Non è una veduta meravigliosa?”. E io, allora diciottenne, che da mio padre di sangue rigorosamente rosso avevo preso un carattere un pochino goliardico, gli risposi “Beh dopo morti c’è poco da vedere. Al massimo ne usufruirà lui” e indicai lo stemma della famiglia Ubaldini su cui noi Barbieri facevamo sempre un sacco di risate. Era un cervo con una invidiabile impalcatura di corna (se vai su google lo trovi).
Le cose che hai scritto mi hanno rituffato in queste atmosfere. Mia madre – nata a LIcata dove abitò per i primi sedici ani della sua vita finché, rimasta orfana, non venne (a suo dire) truffata da uno zio-tutore, – sosteneva che in quella parte della Sicilia si assisteva a comportamenti particolarmente strani, e aggiugeva: “dev’essere colpa dello zolfo che c’è nell’aria e ci entra nel sangue”.
Sono stato a vedere di recene la tomba. Pare che gli eredi l’abbiano venduta. Le lapidi con i nomi – a mio zio piaceva ospitare – preceduti dai titoli, erano in un angolo, e i loculi vuoti.
Un abbraccio.