di Pasquale Hamel
Eugenio, per almeno sessant’anni, ha fatto parte di quel micro-mondo che popolava la via Roma la strada principale di Porto Empedocle. Non che in giro ci stesse molto, solo il tempo di sgranchirsi le gambe, o per fare qualche rapido acquisto prima di rintanarsi nell’appartamentino ad un piano alto e senza ascensore al quale si accedeva da una scala sicuramente poco agevole, che condivideva con la madre.
In quel breve tempo che trascorreva nel “corso”, si accompagnava ai soliti amici occupando gran parte della conversazione con i tanti malanni che, diceva, lo tormentavano. Magro ed elegante, ricordava fisicamente Alec Guinness. Si vede che i geni dei suoi avi olandesi non erano stati soffocati da quelli isolani. E a quei tratti fisici ci teneva … e come ci teneva!
Quale fosse stato il suo mestiere era difficile a dirlo. Si autodefiniva troppo delicato per potersi impegnare in qualche fatica. Sì, aveva fatto il direttore d’albergo, favorito com’era dalla conoscenza delle lingue.
Ma non era durato molto, quel lavoro. Prolungato per molte ore al giorno, si era dimostrato troppo pesante tanto da essere stato “costretto” a lasciarlo. Aveva anche fatto l’orologiaio, mestiere appreso dai parenti della madre. Lavoro di precisione quello dell’orologiaio, che disgraziatamente comportava l’uso di certi solventi o oli che sprigionavano effluvi invasivi che venivano inalati da chi vi si applicava.
E allora… Allora terribili mal di testa, almeno di questo si lamentava, che lo lasciavano intronato per giorni. Anche quell’impegno così duro… durò ben poco. Non era lavoro per lui. A mia memoria non ricordo altri lavori oltre a quelli elencati.
C’era però un impegno che sembrava non costargli fatica, ed era suonare il pianoforte. Nella casa-rifugio sedeva spesso sullo sgabello facendo scorrere le dita sulla tastiera con una leggerezza e una passione incredibilmente coinvolgenti. Il suo preferito era “Il concerto di Varsavia” di Addinsel. Lo conosceva a memoria tanto da non avere bisogno dello spartito. In quei momenti, rapito dal suono che lui stesso artisticamente generava, presente e passato perdevano senso.
Era tutto quello che aveva desiderato essere ma anche il suo contrario senza che questa contraddizione gli creasse alcun problema. Da una finestra di casa dei miei suoceri, richiamati dalla magia della musica, lo osservavamo rapiti da quel suono celestiale.
Questo era Eugenio. E la sua vita era già particolarmente singolare in sé e per sé anche se non si fosse aggiunta la ciliegina sulla torta che ne avrebbe fatto, almeno per le cronache del Paese, qualcosa di unico. Eugenio quando ancora non aveva compiuto i trent’anni incontrò infatti l’anima gemella. Non la giovane vivace o mondana che sarebbe apparsa poco adatta ai suoi ritmi meditati e lenti ma, naturalmente, la classica signorina perbene tutta casa e Chiesa come molte di quelle che popolavano le famiglie di una volta il cui unico obiettivo era di sposarsi e, magari, mettere al mondo qualche figlio.
L’incontro, considerato il tempo in cui la storia si svolgeva, doveva essere stato favorito dai parenti anche loro compresi nell’idea che la solitudine non è la condizione migliore della gente, sia esso uomo, sia essa donna. Ma, al di là di chi provocò l’occasione, il fatto era che i due si trovarono subito bene e che furono certi che quell’unione avrebbe sicuramente corrisposto alle loro vocazioni. Dunque, detto fatto, nessun ostacolo apparente si frapponeva a cominciare da quello fondamentale, per le società d’allora, relativo allo status sociale delle relative famiglie.
Eppure, nonostante tutto, un ostacolo c’era ed era come un macigno che pesava sul futuro dei due innamorati. Si trattava del lavoro, di quel maledetto lavoro che Eugenio, per costituzione e status personale, aveva sempre visto come il diavolo tentatore da scacciare via. Infatti per mettere su casa, e lui ne era responsabilmente consapevole, era necessario che ci fosse di che vivere. E lui quell’autonomia non l’aveva. Sì, c’era la pensione della mamma. Ma già bastava appena per garantire un minimo tenore di vita per madre e figlio, immaginiamoci se su questa piccola risorsa si sarebbe potuta fondare una famiglia.
Si convinse che per sposarsi fosse necessario trovare un lavoro, qualcosa che non affaticasse più di tanto il nostro aspirante sposo ma era una vera complicazione visto che lavoro da scrivania, cioè da impiegato passacarte, non se ne vedeva alcuno nemmeno col cannocchiale. Così, per non complicarsi ulteriormente la vita e per evitare le emicranie che quei pensieri gli provocavano, decise che la migliore cosa da fare fosse attendere che qualcosa maturasse.
Ma, come si sa, aspettare di trovare una soluzione senza però sforzarsi di cercarla non porta a buoni risultati e, nonostante tutto, i due fidanzati si accordarono decidendo di attendere qualcosa senza sapere che cosa attendessero.
Passò il tempo, da giovani divennero maturi signori, poi quasi vecchi, la vecchia madre di Eugenio passò a miglior vita ed alla fine i due fidanzatini si accorsero che di anni ne erano trascorsi più di trenta e che di futuro ne avevano ben poco davanti. Aspettare ancora e illudersi non ne valeva la pena. Decisero così di sposarsi, appena in tempo perché Eugenio, il nato stanco, lasciasse questo mondo.
Di “Eugenii” nati stanchi, in Sicilia ma non solo, ce n’è e ce ne sono stati tanti. E l’Eugenio-pianista in terra di Pirandello probabilmente non era nemmeno il solo a Porto Empedocle e dintorni. Sicché ci furono due comici siciliani, uno di Misilmeri e l’altro di Palermo, che un giorno ne vollero fare un film prendendo linfa creativa dai tanti Nati Stanchi in terre pirandelliane della Trinacria. Fu un successo, soprattutto in Sicilia. E anche oggi, a volte, lo vediamo in TV. Comodamente sdraiati sul divano.