di Michele Pipìa
Di oggi è la notizia di un nuovo “lancio” da parte della Corea del Nord, una dittatura spietata le cui intenzioni non promettono nulla di buono. E il lancio delle ultime ore segue di poche settimane l’esplosione di una bomba atomica nordcoreana.
La situazione va vista in un contesto più ampio, sia geografico che storico.
Non è di oggi la notizia che la Cina si è, di fatto, appropriata di una parte dell’arcipelago delle isole Spratly situate nel Mar Cinese Meridionale tra le Filippine, il Vietnam e il Brunei, ma è più recente la notizia che gli Stati Uniti hanno fatto fare una passeggiatina ad un cacciatorpediniere in quella zona rivendicata anche dagli altri paesi limitrofi.
E’ bastato solo questo per far insorgere il governo cinese ad un punto tale che il ministro della difesa ha affermato che “la presenza del cacciatorpediniere ha sabotato la pace, la sicurezza e l’ordine delle acque e minato la pace e la stabilità della regione”.
Cos’era mai successo per far levare un coro di proteste così alto da Pechino? Semplice, la Cina ormai da anni ha edificato su alcuni isolotti moli di attracco, eliporti e sembra anche una pista di atterraggio, il tutto realizzato su isole artificiali approfittando dei bassissimi fondali; in poche parole vuole gestire e controllare un braccio di mare attraversato dal 50% del commercio marittimo mondiale.
L’argomento è ancora più delicato se si osserva la carta geografica perché le Filippine, a parte la parentesi giapponese durante la seconda guerra mondiale, sono da circa un secolo “protettorato” degli Stati Uniti ed il Vietnam tende ad avvicinarsi lentamente al mondo occidentale.
Nonostante anche altri paesi abbiano approfittato della situazione di incertezza creando delle basi artificiali in quegli isolotti sperduti, il fatto che lo abbia fatto anche la Cina, distante mille chilometri, assume una risonanza non di poco conto.
L’argomento di base è che sarebbe la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale che una nazione tecnologicamente all’avanguardia e militarmente potente cerchi, nei fatti, di attentare al dominio assoluto degli Stati Uniti nell’Oceano Pacifico e nelle sue propaggini.
Con lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima il sei agosto 1945 e con il seguito su Nagasaki gli Stati Uniti hanno dettato le condizioni alle altre potenti nazioni che si affacciavano sul Pacifico: l’Unione Sovietica di Stalin e la Cina. Ben sapendo che di lì a poco Mao avrebbe ripreso la lunga marcia e che si sarebbe disfatto presto dell’alleanza temporanea con Chiang Kai-shek durante l’occupazione giapponese.
La motivazione ufficiale dell’utilizzo delle bombe atomiche è verosimile e fu logica conclusione degli orrori senza fine della Seconda Guerra Mondiale. In effetti dopo ciò che era successo a Okinawa dove persero la vita 150.000 giapponesi, di cui la maggior parte civili, e decine di migliaia di soldati americani, l’orrore fece riflettere molto l’alto comando americano sull’opportunità di aggredire il Giappone risalendo dalle isole meridionali dell’arcipelago. Né, per quanto progettato, era pensabile un attacco frontale. In questo caso un cinico, ma sensato, conto dei probabili morti era di 500.000 americani e di almeno due milioni di giapponesi, conto molto più salato dei circa 200.000 morti di Hiroshima e Nagasaki. Dobbiamo riflettere: a questo genere di orrori e cinici conti conduce la guerra totale.
Ma non era solo questo il problema. Una volta chiusa la partita in Europa, Stalin mantenne il suo impegno dichiarando guerra al Giappone e gli Stati Uniti temettero di correre il rischio che anche questa nazione venisse divisa tra gli alleati come era successo per la Germania. Quindi le bombe atomiche erano considerate come necessarie non solo per “mostrare i muscoli”, mostrando ciò che possedevano nel loro arsenale, ma anche per fare in fretta, per evitare che perdendo tempo i sovietici aggredissero militarmente quella nazione ormai allo stremo.
In poche parole, oltre alle considerazioni sul ridurre le perdite di vite umane, gli Stati Uniti volevano essere gli unici ad appropriarsi dell’arcipelago giapponese strategicamente così importante, dal quale si potevano osservare e controllare da vicino i due subcontinenti asiatici, futuri nemici, gettando così le basi per il dominio dell’Oceano Pacifico complice anche il fatto che nel corso della seconda guerra mondiale la loro flotta era diventata la più potente del mondo e che l’Unione Sovietica, completamente impegnata sul fronte europeo, si era guardata bene dal fare investimenti sulla loro costa orientale.
Ed ora, quarant’anni dopo la fine del confuso e tragico conflitto vietnamita, gli Stati Uniti vedono incrinata la loro credibilità ed il predominio proprio in quello che per sessant’anni hanno ritenuto essere una sorta di mare nostrum dove potevano navigare a loro piacimento certi di non essere disturbati.
Il Mar Cinese Meridionale è sempre stato oggetto di “attenzioni” e di conflitti, persino Salgari vi ambientò le gesta del suo Sandokan. Su questo mare si affacciano Macao, Hong Kong e Taiwan, isola talmente contesa dalla Cina Popolare che solo gli Stati Uniti ne hanno riconosciuto ufficialmente la legittimità difendendone l’autonomia per decenni proprio con la potenza della propria flotta. Questo mare è la porta naturale di comunicazione tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano ed è contornato da nazioni che hanno un tasso di sviluppo altissimo.
Resta solo il problema di come agiranno nel futuro gli americani. Un braccio di ferro tra le due super potenze è impensabile, ma è impensabile anche che gli americani ignorino ciò che sta succedendo.
E oggi, con le ripetute provocazioni del dittatore della Corea del Nord, si aprono nuovi inquietanti scenari dove è anche impensabile che Cina e Russia siano fuori dal contesto.
Una volta si diceva “finché c’è vita c’è speranza”. Oggi è il caso di dire finché c’è pace c’è speranza, perché le armi nucleari distruggerebbero qualsiasi tipo di vita.