di Pasquale Hamel
Uno dei luoghi comuni più diffusi è che la Sicilia sia stata nel corso della sua storia terra di tolleranza. A sostegno di tale tesi si ricorda infatti il miracolo di convivenza fra le culture realizzato dalla monarchia normanna e da quella sveva che l’avevano ereditata dalla periodo della presenza araba. Ma solo fino ad un certo punto corrisponde alla verità storica.
Sulla scia di taluni storici di tutto rispetto, a cominciare dal mai dimenticato Michele Amari, si è voluto rappresentare il sistema socio-economico siciliano lontano da quei vizi capitali che invece erano presenti, nel medesimo periodo, in altri luoghi.
La realtà, nuda e cruda, non dà certamente ragione a questa tesi anche se evidenzia che, proprio in Sicilia, il rapporto fra le culture presenti era meno conflittuale che in altre zone. Per dare contezza di detto assunto ci soffermiamo sulla singolare condizione degli ebrei nella città di Palermo proprio nel periodo della monarchia normanno-sveva.
Diciamo subito che a Palermo, ma anche in tutta la Sicilia, la presenza ebraica, almeno fino alla drammatica espulsione del 1492-93, è stata veramente consistente. Anche se le notizie riportate dai cronisti sono opinabili, si può con un certo margine di certezza pensare che essi costituissero il 5% della popolazione residente. Palermo, in particolare, godeva di un altissimo tasso di presenza rispetto a molte altre città e luoghi della Sicilia. Una presenza che, tuttavia, non sembrava affatto suscitare problemi a tal punto che nella città non si può dire che esistesse un ghetto, cioè una sorta di recinto in cui gli ebrei erano costretti a vivere.
Il fatto che gli ebrei si addensassero in un luogo specifico, l’Harat Al-Yahud , il quartiere ebraico, non nasceva infatti da costrizioni ma da esigenze funzionali degli stessi. Il vivere vicino consentiva infatti di coltivare più facilmente le loro tradizioni e nello stesso tempo organizzare meglio le attività a cui questa gente si dedicava, con un terminologia allora sconosciuta si potrebbe dire che in tal modo potevano realizzare delle economie di scala. Inoltre, i ghetti erano sempre collocati vicino al palazzo del potere, proprio per godere di quella protezione che in situazioni di emergenza poteva essere necessaria, mentre a Palermo gli ebrei non abitavano proprio all’ombra del palazzo, il quartiere ebraico si trovava infatti a sud del quartiere del Cassaro a circa metà strada fra lo stesso palazzo reale ed il porto mentre la sinagoga principale si trovava vicino al fiume Kemonia oggi coperto che, come è noto, attraversa tutta la città storica.
Alla luce di quanto sopra, il quartiere ebraico non differiva più di tanto da quelli di altri gruppi presenti nella città come i mercanti amalfitani, greci, genovesi o orientali. Il ghetto e la ghettizzazione dovevano essere tentati qualche anno dopo, da Federico III d’Aragona il quale cercò di concentrare gli ebrei in un luogo specifico cercando così di marcare la differenza e di separarlo dalle popolazioni cristiane. Tentativo che non ebbe molta fortuna data la situazione particolare della Sicilia.
Beniamino de Tuleda, il viaggiatore ebreo che visitò la Sicilia in quegli anni, dà contezza di questa consistente presenza ebraica e parla di circa 1.500 ebrei residenti a Palermo. Una cifra che a detta di alcuni dovrebbe essere almeno moltiplicata per quattro avendo il viaggiatore inteso 1.500 famiglie e non 1.500 individui. Lo stesso Beniamino de Tuleda non ci informa di particolari difficoltà che gli stessi ebrei incontravano nella vita quotidiana. Qualche studioso per dare una chiave di lettura a questa singolarità, potremmo dire al caso siciliano, si sofferma sulle attività che gli ebrei siciliani e palermitani in particolare gestivano. E a questo proposito balza evidente una singolarità: gli ebrei siciliani non si occupavano di finanza, non trattavano di vile denaro, non esercitavano l’usura che era invece una delle attività tradizionali, la più pericolosa, di cui gli ebrei si occupavano in occidente. Gli ebrei siciliani e così quelli palermitani erano invece raffinatissimi artigiani che tessevano favolosi tessuti, lavoravano il ferro e i metalli nobili per realizzare preziosi monili, questi erano lavori utili e particolarmente apprezzati sia dalle popolazioni plebee che dagli aristocratici.
Proprio a proposito dei tessuti si deve ricordare che nel tiraz (il tiraz era la fabbrica di tappeti e tessuti allocata nel palazzo) operavano ebrei, abilissimi setaioli, eredi di quei lavoranti che nel 1147 re Ruggero II aveva deportato in Sicilia dopo la riuscita incursione della sua flotta in Eubea. In quel tiraz le mani esperte di valorosi artigiani hanno tessuto il favoloso manto di Ruggero – insieme a moltissimi altri oggetti preziosi (si parlò di 115 muli carichi di ogni bene ) che il predone Enrico VI fece portare in Germania – che oggi costituisce uno dei reperti più preziosi della collezione del museo imperiale di Hofburg a Vienna.
Che la presenza ebraica a Palermo fosse importante lo dimostrano le iscrizioni in arabo giudaico che ricevono, in taluni reperti come la pietra tombale della nobile palermitana Anna, la medesima dignità della lingua latina, della greca e dell’araba.
Naturalmente questa rappresentazione apparentemente felice trovava alcuni limiti. Primo fra i quali quello, tipicamente medievale elaborata soprattutto nel mondo islamico, che portava i sovrani a considerare le comunità ebraiche come vere e proprie proprietà personali con le conseguenze che tutti possiamo immaginare.