di Pasquale Hamel
Il cavaliere Paolo Cà, uno dei tanti immigrati e figli di immigrati, per lo più commercianti o artigiani, che hanno da sempre popolato la cittadina marinara siciliana di Porto Empedolce, aveva un negozio di abbigliamenti nella centrale via Roma. Era un grande lavoratore e, nonostante notoriamente i commercianti venissero considerati imbroglioni, godeva della stima generale, se non altro, per la sua correttezza. Ad accrescere stima e considerazione si aggiungeva una nota particolare: il cavaliere era padre di due bellissime fanciulle che, si diceva, custodisse gelosamente e che facevano stravedere la bella gioventù del Paese.
Erano tempi tristi, quelli in cui si svolsero i fatti che racconto; molti di quei giovani, i cui sogni segreti erano stati occupati dalle grazie delle due ragazze, erano andati a combattere in terre lontane e tanti di loro, sacrificati dalla megalomania del piccolo dittatore nazionale, non avrebbero più fatto ritorno a casa. La guerra, inoltre, aveva cambiato le abitudini della gente del Paese e dopo l’euforia dei primi due anni, un po’ per le notizie di morte che venivano dai fronti, un po’ per le restrizioni imposte dal razionamento, quella spensieratezza ed eccentricità pirandelliana tipica della zona, si era mutata rapidamente in un clima di cupo sconforto che portava ad ascoltare con disincanto i tronfi comunicati ufficiali sui presunti successi militari con i quali si cercava di anestetizzare gli ormai evidenti insuccessi militari.
Dalla fine del ’42 l’aviazione alleata aveva cominciato a colpire duro tutto il territorio siciliano e anche Porto Empedocle, che peraltro veniva considerata piazza strategica importante per il suo porto, cominciò a subire l’offesa delle bombe; molti palazzi ne fecero le spese. Nell’incursione del 1942 una bomba aveva centrato una palazzina in via Cannelle seminando morte. In quell’occasione le perdite umane furono 17 e sette di esse erano figli dello stesso padre e della stessa madre. Insomma uno stillicidio di vittime che fece precipitare nel lutto decine di famiglie. Per questo motivo, chi se lo poteva permettere, parlo delle famiglie più facoltose, lasciava precipitosamente il paese per rifugiarsi nelle zone interne dove il pericolo apparentemente era meno presente.
Anche il nostro personaggio che, se non facoltoso sicuramente stava economicamente meglio di tanti altri suoi compaesani, pur essendo all’inizio alquanto restio, dopo avere visto l’effetto della bomba caduta su palazzo Cappadona, fortunatamente disabitato, prese in seria considerazione l’idea di seguirne l’esempio, se non altro per l’amore che portava alla famiglia. Una scelta che, in quel momento, gli pesava visto che i suoi affari, nonostante la guerra, non andavano poi malaccio.
A convincerlo fu soprattutto il racconto, un po’ fantasioso, di un reduce dall’Africa che gli aveva riferito delle violenze che i nemici, soprattutto soldati di colore, usò per la verità il termine molto scorretto di “negracci”, avrebbero usato nei confronti delle donne italiane. Siccome il nostro era convinto che prima o poi quei soldati sarebbero sbarcati sul sacro suolo patrio, sentì impellente anche il dovere di mettere al sicuro le belle figlie dalle voglie fameliche dei conquistatori e dalle bombe delle fortezze volanti.
La scelta sul luogo cadde sulla vicina Siculiana, da lì avrebbe potuto recarsi giornalmente in bicicletta al Paese per proseguire i suoi commerci e per dissuadere con la sua costante presenza qualche malintenzionato dal fare man bassa della sua roba.
Detto fatto. Partirono all’alba si una certa giornata carichi di ogni masserizia e raggiunsero il paese senza problemi.
Da allora cominciò, per il nostro, una defatigante spola fra Siculiana e Porto Empedocle, tragitto che copriva in sella ad una fiammante bicicletta Bianchi, modello Folgore, allora all’avanguardia che aveva comprato di seconda mano da uno di quei giovani soldati partiti e mai più tornati.
La bicicletta l’aveva scelta perché, a suo dire, era il mezzo più sicuro, caccia e bombardieri, che affollavano i cieli di quella zona dell’agrigentino, e non si sarebbero certamente curati di dare la caccia ad un solitario ciclista che percorreva quelle strade accidentate.
Questo pensiero, immagino, attraversò ancora la sua mente mentre in quel giorno in cui affrontava una ripida curva sentendo volteggiare sulla testa un aereo da guerra. Ma quel pensiero, se ci fu, trovò presto una brutta smentita: il velivolo puntò infatti direttamente su di lui e, appena a tiro, il pilota azionò inesorabile la mitraglia falciandolo sul colpo.
Mi chiedo, chissà cosa era passato per la testa a quel pilota assassino che decretò la fine del povero Paolo Ca’?”
Però una risposta potrebbe esserci. L’esercito italiano nel 1943 era andato a mal partito, soprattutto in Sicilia: mancava di tutto, perfino di scarpe. Mancava di mezzi di trasporto, a tal punto che i migliori battaglioni, ad esempio quelli dei bersaglieri, si muovevano in bicicletta, e gli alleati che avevano il dominio dell’aria e molti agenti in Sicilia, lo sapevano. Andare in giro in bicicletta senza nascondersi al rombo di un aereo nemico era forse la maniera più ovvia per farsi ammazzare. Forse il nostro non lo sapeva, anche perché le informazioni in tempi di guerra non sono facili da reperire per i comuni mortali. E la bicicletta, a Paolo Ca’, ne fu tragica “giara”.
Fin dai tempi di Eschilo, in guerra la verità è la prima vittima. Ancor più dove la verità si nasconde, pirandellianamente, tra secche colline sferzate dallo scirocco.