di Gabriele Bonafede
Come fu o come non fu, a Palermo ci fu la fame e poi la peste. E poi di nuovo la fame. E di nuovo la peste. E ancora fame e poi peste. Fino a non sapere più cosa fosse nata prima: la fame prima della peste o la mafia prima della fame. Ma per uno che non aveva fame, e che rideva di cultura e nobiltà, ci furono cinquanta più cinquanta che ebbero fame. Solo la peste fu “livella”.
Forse si può racchiudere in questo cerchio senza fine la storia di Palermo. E della Sicilia. Così da renderla palese, come raccontata da Salvo Licata, con messa in scena al teatro Biondo, compreso epilogo, dalla giovane regia di Luca D’Angelo.
Che colora un dittico, Fame e Peste, con cinque attori sovrapposti, ognuno con la sua nota, in una serie di eclettici e musicali quadri di racconto. Cinque attori, e attrici, fluidi oltre che trasformisti, più pianista dal vivo. Tanto riparati nei loro caratteri quanto aperti, tanto creati quanto creativi.
S’impone Mario Pupella, tornato al Biondo dopo quarantacinque anni, con la trasformazione di se stesso in passerella “alla Totò”. E forse più: zia Clotilde non fa una piega.
Sulla scena è donna al cento per cento, promana arte, e partecipa il personaggio di “mecenate” dal doppio fine famelico. Colorando il testo di Licata con teatrale arrembaggio.
Dittico, che parte con due attori che mai avevano lavorato assieme e si trovano a condividere fame e teatro con un solo gatto da mangiare, per l’orrore, tutto teorico, della sensibilità animalista: la fame è fame, “all’antica”. Povero animale diviso in due “con patate”, da onesti commilitoni o galeotti, fuggiaschi nella propria casa. Quasi fosse un pezzo di “Daunbailò” al contrario, con il gatto al posto del coniglio. In cui aleggia, mi perdonino sempre tutti i lupi, il nostro senso popolare di memoria palermitana: sono Gino Carista e Salvo Piparo, che si appropriano vividamente del testo di Licata.
Sarebbe impossibile legare questo terzetto, Pupella-Carista-Lo Piparo, senza tre donne: Costanza Licata, Stefania Blanduburgo e Irene Maria Salerno, pianista. Volano con veracità cantata l’una, con incredibile eclettismo l’altra, con musica dal vivo l’altra ancora. Contrappunto, scuro e chiaro che fa emergere chiaro e scuro. Canto e musica producono l’atmosfera di farsa e tragedia congiunte: Palermo.
Quando la Blandeburgo trasforma la voce in preghiera disperata. Arriva la peste. Ne senti l’avvilimento, lo smarrimento, la paura. L’esserne braccata. Ne percepisci la lupara.
Storia di duetti, la Fame e La Peste vista ieri in prima alla Sala Strehler del Biondo. Ma anche di cori, di portate dalla cucina (andateci “mangiati”, cioè con qualcosa nello stomaco, altrimenti i succhi gastrici v’imporranno l’abbuffata una volta usciti), di salsa dal sapore antico, di pepe “puparo”, di cabaret quanto basta, e di dessert non troppo dolce, così da farsi servire il bis.
Di applausi. Certo. Picchì si manciaru già tutto!