di Francesco Lo Cascio
«Io, devo dire, non condivido mai la guerra: neppure quella contro i Turchi.
La religione cristiana sarebbe messa davvero male, se la sua sopravvivenza dipendesse unicamente da questi puntelli!
Non ha senso attendersi che, a partire da premesse ostili, le genti sottomesse diventino buoni cristiani: ciò che si conquista con la violenza, lo si perde nello stesso modo […].
“Ma perché – sento dire – non dovremmo poter sgozzare quelli che vengono a sgozzarci?”.
A costoro rispondo: “Vi sembra davvero così inaccettabile che altri siano più crudeli di noi?
Allora perché non derubiamo chi ci deruba? E perché non prendiamo a male parole uno per uno tutti quelli che ci offendono? Perché non odiamo visceralmente tutti quelli che ci odiano?”».
ERASMO DA ROTTERDAM, La guerra piace a chi non la conosce.
A distanza di due mesi, proviamo a mettere ordine alle emozioni e alla valanga di informazioni relative all’attentato ISIS di Parigi.
Come sempre si è assistito ad un riposizionamento dei vari commentatori, più per ragioni autoreferenziali che obiettività d’analisi. L’accaduto viene connesso ai più vari aspetti sociali, il più delle volte relativi a dinamiche politiche interne dei vari paesi (quando non localistiche), senza particolare lungimiranza in relazione ad un fenomeno, per sua natura, transnazionale.
La paura del diverso spinge in primo luogo a diffidare dei fenomeni migratori, particolarmente in zone del Paese e dell’Europa dove più allignano sentimenti xenofobi e razzisti, ma questa risposta, che potrà fare la fortuna di qualche sindaco leghista e dei derelitti che lo seguono, non coglie nel giusto.
La prima domanda da porsi è: chi sono questi terroristi, quale profilo di personalità hanno, che età, quale formazione.
Ed allora, con sorpresa, dobbiamo confrontarci con ragazzi, poco più che ventenni, di cittadinanza europea, figli di immigrati di seconda o terza generazione. Spesso di buona formazione e cultura. Allora bisognerà interrogarsi, dov’è che abbiamo sbagliato? Quali sono le ragioni del nostro fallimento educativo e culturale? Probabilmente, bisognerà cercare nei limiti dell’idea di “tolleranza” e di “laicità” dello stato.
Particolarmente nel contesto francese, l’idea di una convivenza fondata sulla negazione delle identità religiose, del rifiuto dei simboli religiosi nello spazio pubblico, sembra non aver ottenuto i risultati auspicati. La ricerca di una identità di questi giovani, il loro ribellismo, l’insofferenza verso soprusi e violenze subìte nelle periferie, li avrebbero portati a maturare una diffidenza verso la cultura in cui sono cresciuti, cercando un’identificazione nell’islamismo radicale, appreso magari via internet e senza studi approfonditi.
Stiamo parlando di migliaia di “foreing fighters”, particolarmente in Francia, Inghilterra, Belgio. Un fenomeno che non potrà trovare un’efficace risposta militare, perché altre ne sono le origini ed altri i piani su cui si dovrà combattere.
La perdita di contatto con i giovani non riguarda unicamente gli immigrati delle diverse etnie che compongono le nostre società, ma è trasversale a tutti i giovani, il cui ribellismo assume forme, modelli e mitologie sempre più lontane dalle nostre idealità. Che risposte dare?
Forse l’idea di negare la religiosità, comprimendola nella sfera del privato, non si è rivelata una risposta adeguata; il laicismo, tutto ideologico, frutto delle “giuste” risposte a secoli di guerre di religione in Europa, ci impedisce di trovare soluzioni adeguate in un mondo sempre più globalizzato. Non è negando la cultura e le aspirazioni proprie dell’Altro che risolviamo le nostre difficoltà, non è negando i simboli religiosi, vietando questo o quello che funziona, ma soltanto a partire dalla conoscenza dell’Altro, delle sue persuasioni, dei suoi costumi, della bellezza che esprime la sua cultura, che potremo trovare le forme per una nuova “convivialità delle differenze”.
Il che presuppone anche una conoscenza ed una valorizzazione della propria tradizione, come dono da offrire all’Ospite. La conoscenza reciproca, la familiarità, il gusto per quanto ci unisce, più che il sottolineare le divisioni, questo potrà salvarci e salvare l’Umanità. In questa prospettiva dovremo allora leggere le dinamiche che attraversano il mediterraneo: “due popoli in due stati” o convivenza delle culture della Terrasanta? Turchia fuori dalla UE, o diritto per tutti e anche per i cristiani e i curdi di vivere in libertà nello steso Paese? Continuare con la frammentazione dei Balcani, o considerare l’Europa come unica casa comune delle diverse tradizioni e culture? Barriere di filo spinato, che ricordano la tristezza del nostro recente passato, o un’Europa ed un Mediterraneo uniti in una comune prospettiva e consapevoli di un comune destino? Europa delle banche o dei cittadini?
Forse gli altri paesi europei dovrebbero guardare anche all’esperienza dell’Italia, coinvolta nella lotta al terrorismo e alla mafia: battaglia che ha avuto un punto di svolta nel superamento della logica meramente repressiva e militare e nell’incontro con la Nonviolenza ed il protagonismo della società civile. Si è vinto solo quando si è compreso il ruolo dei sindacati e dell’associazionismo, delle chiese, della scuola e dei mass media. Carlo Alberto Dalla Chiesa, arrivato a Palermo da Torino, dopo i successi militari ottenuti nella lotta alle BR, durante i suoi 100 giorni, comprende subito che la risposta repressiva e militare non basta e da subito inizia a visitare le scuole per parlare con gli studenti e gli insegnanti.
Quest’esperienza è preziosa per cogliere nuove vie di successo e di affermazione della democrazia e dei valori europei.
Hollande sbaglia a praticare la strada opposta! Le leggi speciali non servono e sono un regalo alla propaganda dell’ISIS. I limiti dell‘uso della forza risiedono nella stessa origine dello jihadismo e dell‘ISIS stesso.
Per esempio, consideriamo alcune connivenze da sciogliere:
1. Abu Bakr al Baghdadadi nel 2004 è stato internato nei campi USA di Camp Buica e Camp Adder per essere poi rilasciato;
2. I finanziatori dell‘ISIS sono stati anche il Quatar, l‘Arabia Saudita (al Rajhi bank, Al Shamal islamic bank, National Commercial bank), il Kuwait, aldilà dei recenti sviluppi;
3. I proventi del petrolio (25-50 mila barili giornalieri), il “pizzo” ISIS imposto anche alle produzioni dei territori non ancora “conquistati”;
4. Gli acquirenti occidentali (inglesi, svizzeri ed USA) del traffico di reperti archeologici;
5. Il probabile traffico di organi;
6. La stessa Turchia, che fin dall’inizio ha avuto un ruolo ambiguo nei confronti dell’ISIS, privilegiando la propria lotta contro il popolo curdo, agli obblighi di solidarietà atlantica.
Lo stesso Occidente quindi quale ruolo e corresponsabilità ha avuto? Valutiamo allora quale possa essere il tratto comune tra le nazioni oggi interessate dall’espansione dell’ISIS. Se badiamo alla distribuzione degli attuali conflitti che nel Mediterraneo ed in Europa, si sono sovrapposti alle rivoluzioni colorate ed arabe, noteremmo che le nazioni coinvolte (Ucraina, Caucaso, Tunisia, Libia, Egitto, Siria) sono tutte nazioni che hanno ospitato le basi del 5º Sovmedron russo, il corrispettivo sovietico della 6° flotta USA nel mediterraneo. A livello geopolitico si sta combattendo una battaglia per l’esclusione della Russia dall’area mediterranea, a partire dalla sua proiezione militare, la minaccia di perdere le ultime basi di Sebastopoli nel Mar Nero e di Tarsus in Siria ha determinato la violenta reazione russa per la riconquista della Crimea ed il coinvolgimento militare diretto in Siria.
È stata un’operazione strategicamente utile? O forse, piuttosto che espellere dal teatro Mediterraneo solo una delle parti in causa, sarebbe stato più opportuno ragionare su un Mediterraneo definitivamente denuclearizzato, senza flotte straniere, dando esecutività agli impegni previsti dal processo di Barcellona, che prevedeva un Mediterraneo finalmente libero da armi di distruzione di massa?
Ban Ki Moon[1] si è impegnato ad aggiornare al 2018 i negoziati, dopo la battuta di arresto dell’iniziativa per il bando dell’atomica per motivi umanitari[2], trattativa dove l’Egitto ed i paesi non allineati avevano proposto l’avvio, entro marzo 2016, di negoziati per la denuclearizzazione del medio-oriente: proposta bloccata da USA ed Israele. Perché non continuare a supportare quest’obiettivo?
Veniamo ora a considerare il rapporto con l’Islam. Il jihaidismo, l’islam salafita e quello wahbita saudita, sono stati incentivati dall’occidente per combattere i regimi socialisti panarabi, in Siria, Iraq, Libia, Egitto. La logica imperiale del combattere per interposta persona, ha sempre limiti intrinseci, fin dagli anni ‘80 e fin da quando sono stati impiegati i talebani in Afghanistan in chiave antisovietica: li abbiamo visti rivoltarsi contro, nel pluridecennale conflitto di quel paese. Non è questa la strada per trovare soluzioni. La possibilità di un accordo con l’Iran dopo decenni di conflitto strisciante ed aperto, offre, invece, nuove opportunità alla pacificazione dell’area. Non è certamente una strada facile, ma è l’unica percorribile. Mettere al tavolo negoziale tutti gli attori principali e trovare una composizione nel comune interesse. Ma quanto tempo ancora serve? Quanto sangue?
Intanto, mentre i potenti attuano i loro giochi di potere, e la gente ne soffre le conseguenze, bisogna capire come si può agire dal basso per supportare chi, attraverso la nonviolenza, difende i diritti umani nel territorio, le ONG[3], i diversi attori della società civile, per quanto deboli possano essere. Certamente bisogna operare per smascherare le falsità e per far circolare informazioni, per chiedere la chiusura dei flussi finanziari verso le aree di conflitto, per far cessare il commercio di armi e la produzione bellica, imponendo il rispetto della recente normativa in materia e chiedendone una più restrittiva.
Ma guardiamo al possibile contributo dei nonviolenti, alla ricchezza degli strumenti che la nonviolenza ci offre.
Il MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione) dovrebbe attingere maggiormente alla riflessione delle diverse branche nazionali dell’IFOR, piuttosto che a prese di posizione autoreferenziali delle diverse soggettività dell’area nonviolenta italiana. I recenti comunicati del Mir France[4], dell’IFOR[5], dell’ ifor Austria[6] e dell’ Ifor Usa[7], hanno messo in luce le diverse opportunità offerte dagli studi sulla nonviolenza anche in questo conflitto – in particolare citando Waging Nonviolence[8] – (es. quelli di Eli McCarthy[9]), che sulla scia dell’opera di Gene Sharp[10], indicano le possibili risorse offerte dalle tecniche nonviolente sia in Europa che a livello globale.
In Europa, nella fattispecie vengono suggerite le seguenti misure[11]:
1. Sviluppo delle periferie
La povertà e il terrorismo sono indirettamente collegati. Lo sviluppo economico è in grado di ridurre le reclute e gli alleati di guadagno, soprattutto se lo sviluppo è fatto in modo democratico. Il terrorismo dell’Esercito Repubblicano Irlandese dell’Irlanda del Nord, per esempio, è stato fortemente ridotto sulla base della creazione di nuovi posti di lavoro, attraverso appunto lo sviluppo economico.
2 . Riduzione dell’emarginazione culturale
Francia, Gran Bretagna e altri paesi hanno imparato che, emarginando un gruppo sociale, diminuisce la sicurezza di tutti, in queste condizioni i terroristi trovano il terreno per la loro crescita;
3. Campagne nonviolente
I terroristi vivono in un contesto sociale e sono influenzati da questo; iniziative che sviluppino la società civile, tolgono loro il terreno di coltura. L’ascesa e la caduta del sostegno al terrorismo sono a loro volta influenzati dai movimenti sociali che utilizzano il potere popolare, o la lotta nonviolenta. L’autodifesa nonviolenta e i progetti di accompagnamento nonviolento si sono dimostrati efficaci nella lotta per i diritti civili in USA, ma anche in Colombia, Filippine, Palestina;
4. Formazione e gestione conflitti
Un modo per ridurre il terrorismo è non esorcizzare i conflitti ma educarci a saperli gestire;
5. Programmi recupero post terrorismo
Il terrorismo come il crimine non può essere sempre prevenuto, il suo obiettivo è creare nella società dinamiche di polarizzazione, programmi di recupero post traumatico possono ridurre il loro obiettivo;
6. Polizia ufficiale di pace
Il lavoro della polizia può diventare molto più efficace attraverso una polizia di prossimità e la riduzione della distanza sociale tra le forze dell’ordine e i quartieri marginali. In alcuni paesi questo richiede il ripensamento della polizia stessa: da difensori della proprietà del gruppo dominante a tutori della convivenza; pensiamo alla polizia islandese disarmata per esempio.
7 . Cambiare i piani d’azione
La politica estera e militare di un paese non fa altro che accrescere il rischio terrorismo, evitare l’interventismo nei conflitti armati, contribuisce a ridurre la minaccia;
8 . Negoziazione
I governi spesso dicono “noi non negoziamo con i terroristi”, in realtà spesso mentono. I governi hanno spesso ridotto o eliminato il terrorismo attraverso le capacità negoziali.
A livello globale vengono indicate queste ulteriori opportunità[12] e azioni per ridurre combattere l’Isis in maniera non violenta:
1. Diminuire le risorse umane dell’Isis
2. Diminuire le loro persone competenti
3. Diminuire le loro capacità di sanzione
4. Diminuire i loro beni immateriali
5. Diminuire i loro beni materiali
6. Istituzioni alternativeall’Isis
7. Scioperi a singhiozzo nelle aree che controllano
8. Protezione civile disarmata [13]
9. Peacebuilding
Infine non dimentichiamo gli studi e le iniziative sulla relazione tra islam e nonviolenza e la preziosa opera dei musulmani aderenti all’Ifor, a partire dalla Muslim Peace Fellowship, e dalle diverse branche[14] nazionali presenti in paesi mediorientali e a presenza islamica.
Francesco Lo Cascio
[1] http://www.disarmo.org/ican/a/42118.html
[2] http://www.un.org/press/en/2015/dc3561.doc.htm http://www.energiafelice.it/nessun-documento-finale-e-lesito-della-revisione-del-npt-a-new-york/ – http://serenoregis.org/2015/07/23/bando-delle-armi-nucleari-percorsi-praticabili/
[3] http://www.crs.org/get-involved/advocate/public-policy/syria
http://www.crs.org/our-work-overseas/where-we-work/iraq
[4]https://www.facebook.com/mir.france.7/photos/a.1050216625008249.1073741826.1050216555008256/1171718269524750/?type=3
[5] http://www.ifor.org/movement-news-and-updates/2015/11/18/ifor-responds-to-paris-attacks
[6] https://www.facebook.com/IFOR.Austria/posts/1165117410183395
[7] https://www.facebook.com/FORUSA/posts/10153274562855885
[8] http://wagingnonviolence.org/
[9] http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistanc_b_6804808.html ; http://berkleycenter.georgetown.edu/people/eli-mccarthy ; http://paxchristiusa.org/tag/eli-mccarthy/ ; https://twitter.com/emccarthy3 ;
[10] http://www.aeinstein.org/
[11] http://wagingnonviolence.org/feature/8-ways-defend-terror-nonviolently/
[12] http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistanc_b_6804808.html
[13] http://www.nonviolentpeaceforce.org/unarmed-civilian-protection
[14] http://www.ifor.org/branches
Il contenuto del commento deve impegnare tutti i cittadini di buona volontà a dialogare e spiegare senza esacerbare il confronto con le persone. Purtroppo il dialogo spesso avviene senza potere spiegare con dovizia e chiarezza del confronto e potere spiegare le motivazioni vere degli argomenti delle quali si discute. Purtroppo assistiamo ad una continua disinformazione dei media sia di parte che quelle generaliste che si limitano a disinformare trasmettendo le dichiarazione dei vari politucoli intervistati che rilasciano interviste per fare prevalere la propia opinione e non c’è commento o contraddizione all’intervista e quindi veicolazione di notizie false e tenteziose. Pertanto necessità un dialogo continuo con tutti pacato approfondito e di lunga lena e di pazienza poiché allo stato attuale prevale il confronto con persone che non conoscono nessun argomento di cui discutono e vogliono imporre le loro idee e quindi con la dovuta calma discutere con una persona alla volta per potersi confrontare e spiegare i giusti concetti e potere spiegare bene gli argomenti del confronto.