
Porto Empedocle, terra di uno scrittore, nessuno e centomila...
di Pasquale Hamel
Il nome di Salvatore B., “Taccareddu” come era inteso a ragione delle sua modestissima altezza, alla gran parte dei miei lettori non ricorda nulla e, credo, anche a Porto Empedocle, suo paese e luogo della storia che vado a narrare, ben pochi ricordano questo personaggio. Eppure Taccareddu, un anarchico orgoglioso delle sue idee che non aveva mai dismesso la sua fede politica nemmeno quando sarebbe stato più prudente tacere, qualcuno al suo paese lo dovrebbe ricordare.
Ma andiamo al “fattaccio”.
Siamo negli anni trenta del secolo scorso, il fascismo celebra i suoi fasti e fra il tripudio di un popolo plaudente, inventa la riapparizione del “l’impero sui colli fatali di Roma”. La gran parte degli italiani, peraltro consenzienti, si rassegna al corso delle cose; l’opposizione è infatti ridotta al lumicino, sembra che nessuno abbia il coraggio (o l’orgoglio) di rivendicare la propria dignità di cittadino libero mortificato dal regime.

Proprio nessuno? Beh, eccezioni ce n’erano, in verità rarissime visto il coraggio (sic!) che fa parte della cifra identitaria della gran parte degli italiani.
Porto Empedocle, ad esempio, di eccezioni ne vantava più d’una, c’erano uomini tutti d’un pezzo come il cugino di papà che, per mantenere fede al suo credo politico – era un comunista della prima ora – fece sette anni di confino, forzato ospite a Ustica e Ventotene, o come lo stesso Taccareddu che, nonostante il severo controllo a cui era stato sottoposto, in tutta segretezza riusciva a stampare qualche foglio sovversivo incitante alla resistenza antifascista.
A Porto Empedocle, Taccareddu e il gruppetto di antifascisti, avevano un persecutore speciale, il fascistissimo cavaliere Francesco V., omone manesco, spesso in orbace, che si aggirava con arroganza per le vie della cittadina marinara incutendo timore e che si permetteva, perfino, di regalare qualche pesante carezza sulle guance a chi non lo aggradava. Questo pomposo e malvoluto personaggio, nella bella stagione, era solito accomodarsi in una poltroncina del rinomato Caffè Castiglione, che si apriva sulla via principale di fronte al palazzo di città, per gustarne con giusta soddisfazione il “pezzo duro” com’era intesa una particolare cassata gelato.

Il cavaliere, però, non si limitava a soddisfare il peccato di gola, da quel tronetto infatti, forte dell’impunità che la tessera del partito gli garantiva, si permetteva, di tanto in tanto, di indirizzare battute non sempre civili nei confronti di quanti gli scorrevano davanti.
Quel giorno, non sono a conoscenza né del mese e nemmeno dell’anno, si trovò a passargli davanti proprio il piccolo anarchico, la sua vittima preferita; poteva il cavaliere perdere un’occasione tanto ghiotta?
Senza pensarci più di tanto ne richiamò la sua attenzione invitandolo ad avvicinarsi e avutolo di fronte, ergendosi in tutta la sua imponenza – Taccareddu gli arrivava, si e no, un po’ sopra la cintola – cominciò a inveirgli contro non trascurando di condire il suo frasario con qualche insinuazione pesante che avrebbe sicuramente punto nel vivo anche la persona più indolente.
Attorno ai due, come è normale in un Paese di provincia dove gli accadimenti sono rari e le novità si fermano sui pettegolezzi o sulle pruderie di vario genere, si formò un capannello di gente incuriosita. E molti mentalmente scommettevano sulla forza di reazione dell’offeso di fronte allo sprezzante linguaggio dell’arrogante cavaliere pensando, a buona ragione, che quella storia sarebbe finita male.
E qui viene il bello, una sorpresa inaspettata da ascrivere agli annali degli eventi eccezionali.

I due, il cavaliere e Taccareddu, erano divisi dal tavolo ma proprio quel tavolo divenne lo strumento di una performance il cui racconto mette in forse la credulità del lettore. Come fu o come non fu, sta di fatto che all’improvviso Taccareddu, con un salto prodigioso, si trovò sul tavolo colmando così quella differenza che fino a qualche istante prima aveva dato al cavaliere una indiscutibile condizione di vantaggio. Per un attimo, gli occhi del cavaliere sbalordito da quel che stava accadendo e angosciato perché il suo “pezzo duro” era rovinato a terra, e quelli carichi d’odio e di rabbia della sua vittima, si trovarono a qualche centimetro di distanza. E proprio in quell’attimo avvenne il fattaccio: Taccareddu infatti come una bestia feroce aprì la bocca e, senza pensarci due volte, addentò il naso del cavaliere che, lacerando l’aria con un grido bestiale, perdette l’equilibrio e rotolò a terra col viso insanguinato per la ferita.
Approfittando del bailamme, l’aggressore se la diede a gambe e, pare, che sia riuscito a far perdere le tracce sfuggendo così alla reazione dei fascisti prontamente intervenuti a sostegno del loro capo.
Non ho mai saputo cosa avvenne in seguito, ricordo solo che di quell’episodio, raccontatomi da mio padre, restò negli anni una sola traccia, una vistosa cicatrice sulla narice sinistra del nostro cavaliere.
In copertina, Porto Empedocle e Agrigento nel 1943. Immagine ratta da www.salvofuca.blogspot.com
Un pezzo di Vera Storia che fa Onore a Porto Empedocle