di Gabriele Bonafede
Anche oggi il prezzo del petrolio perde pezzi e scende ben al di sotto dei 39 dollari al barile, toccando un nuovo minimo settennale a 37,50 dollari per il Brent.
Ciò rappresenta un vero terremoto e un beneficio sostanziale per l’economia dell’UE e soprattutto per l’Italia che ha già realizzato una ripresa del PIL da quando i prezzi dell’energia hanno registrato uno spettacolare ribasso (da circa 110 dollari al barile a 60) nella seconda parte del 2014. Nel corso del 2015 il prezzo del petrolio è sceso più lentamente ma in maniera quasi costante, da una forchetta di 50-60 dollari al barile ai 36-40 di oggi.
L’economia italiana, fortemente dipendente da importazioni d’energia, trae beneficio sia per quanto riguarda i consumatori che per quanto riguarda l’industria e l’agricoltura. Dal punto di vista dei consumatori, la riduzione del prezzo del petrolio si è già riflessa sul costo della benzina al dettaglio, con un meno 10% circa da dal giugno al novembre 2015 (dati Ministero dello Sviluppo Economico).
Per quanto riguarda l’industria e l’agricoltura, la riduzione dei costi in approvvigionamento energetico permette un risparmio nei bilanci delle imprese che può essere reinvestito o redistribuito in profitti e salari, oltre a fornire opportunità per l’espansione della produzione e l’occupazione.
In generale, tutta l’economia dell’UE in gran parte importatrice di energia, se ne giova. Su base mondiale, Tom Helbling dell’IMF sostiene che un 10% di riduzione del petrolio fa crescere il PIL mondiale dello 0.2% (The Economist, Cheaper oil Winners and losers, 24 ottobre 2014). Verosimilmente, per l’Italia l’incremento è più alto. Ci si può dunque attendere una crescita addizionale del PIL italiano almeno dello 0,4-0,5% rispetto alle attuali previsioni se il prezzo del Brent rimarrà tra i 35 e i 40 dollari al barile abbastanza a lungo. Anche la Cina, grande consumatrice d’energia, se ne giova e di rimando tutta l’economia mondiale.
Esistono, ovviamente, vincenti e perdenti nelle fluttuazioni del prezzo del petrolio. Va da se che i Paesi che basano la loro economia sulla produzione ed esportazione della materia prima sono tra i perdenti. Soprattutto quelli che non hanno ammodernato i loro sistemi produttivi negli anni di “vacche grasse”, tra i quali la Russia e il Venezuela.
Per registrare impatti positivi e negativi del prezzo del petrolio sull’economia i cambiamenti devono però essere prolungati nel tempo. È il caso dell’attuale discesa dei prezzi dell’energia che, anche se tipicamente fluttuanti nel breve periodo come per tutte le materie prime, hanno registrato una discesa strutturale a partire dalla metà del 2014, come si vede anche nel grafico dell’IMF pubblicato in http://blog-imfdirect.imf.org/2015/12/02/the-price-of-oil-and-the-price-of-carbon/)
A seguito della riduzione del prezzo del petrolio, e anche per il rafforzamento del dollaro, i Paesi che basano la loro economia sulle fonti energetiche si ritrovano con monete nazionali più deboli. È così ad esempio per la Russia, con il rublo in grande difficoltà e più volte sostenuto dalla banca centrale russa, ma ormai stabilmente nella forchetta tra 70 e 80 rubli per un euro a fronte dei 40-50 nella prima parte dello scorso anno, nonostante i ripetuti interventi della banca centrale russa per mantenerne il valore entro i 77-80 rubli per euro. Stessa cosa, ad esempio, per l’Azerbaijan la cui moneta stabilita a cambio fisso sull’Euro, è stata svalutata dal governo azero del 30% all’inizio di quest’anno.
Il budget pubblico dei paesi con grande dipendenza economica da fonti energetiche ne risente ugualmente, con grandi riduzioni nelle capacità di spesa e problemi di bilancio.