di Massimiliano Di Pasquale
Indirizzo: Unione Sovietica, l’ultima fatica di Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa e Metodologia della Cultura visuale alla Statale di Milano, non è un testo accademico sulla defunta URSS, bensì il fratello gemello de La vita privata degli oggetti sovietici, l’interessante volume, uscito quattro anni fa, sempre per i tipi di Sironi. Mentre nel lavoro precedente l’indagine era circoscritta al mondo privato, sviscerato attraverso l’analisi di 25 oggetti tipici del quotidiano sovietico – il profumo Krasnaja Moskva , il formaggino Druzhba, passando per ‘oggetti’ in senso lato, decisamente più ingombranti, ma che entravano in relazione con la sfera privata, come il cadavere di Lenin – qui lo sguardo dell’autore si sposta su 25 luoghi, pubblici e privati, che emergono dalla dialettica, forse più russa che sovietica, tra spazio ampio e ristretto, tra aperto e chiuso.
Se il formato 20×19 stile foto album, ideale per valorizzare il ricco apparato iconografico del libro, è lo stesso dell’opera precedente – a mio avviso i due volumi sono parte di un dittico antropologico-culturologico sull’URSS – la metodologia adottata è quella che, ormai da diversi anni, contraddistingue l’interessante percorso di Piretto. Un percorso originale, dai tratti postmoderni, ove la ricostruzione storica del mondo sovietico avviene attraverso una prospettiva visuale filtrata dall’esperienza personale dell’autore. I luoghi indagati in questo saggio il cui titolo cita una famosa canzone pop del 1972, Moj adres Sovetskij Sojuz (Il mio indirizzo è: Unione Sovietica), “scritta e musicata da due monumenti della musica leggera sovietica, rispettivamente Vladimir Charitonov e David Tuchmanov”, appartengono infatti non solo alla memoria collettiva di chi visse quell’esperienza storica, ma ai ricordi di gioventù dello stesso Piretto.
Ciò spiega a mio avviso l’esclusione dai 25 luoghi prescelti – tra cui troviamo il sottopassaggio, la coda, la stazione della metropolitana, il grande magazzino, il cortile, la dacia – di un posto, ancorché atroce e terribile, come la prigione con cui milioni di cittadini sovietici dovettero loro malgrado confrontarsi.
Prima di passare in rassegna i luoghi ritenuti paradigmatici di questo mondo scomparso 24 anni fa, il sovietologo affida a una corposa prefazione alcune premesse di carattere metodologico e varie considerazioni atte a sgombrare il campo da possibili equivoci.
Fondamentale in tal senso la distinzione fatta propria da Piretto tra ‘Unione Sovietica’, intesa come realtà sociale condivisa da milioni di persone e ‘potere sovietico’ concepito come potere coercitivo nei confronti delle diverse popolazioni racchiuse all’interno di questa entità politico-geografica.
“A proposito della delicata questione relativa alla nostalgia per l’Unione Sovietica, due soli pensieri, non avulsi dai versi del poeta (N.d.R. Mandelstam): da un lato il riscontro bellico e geopolitico che sta oggi devastando tante terre ex sovietiche e vede modalità del passato tra le meno nobili tornare in auge e riscuotere successi e affermazioni; dall’altro, quello più vicino al taglio culturologico di queste pagine, che prende atto di un atteggiamento degli ultimi tempi rispetto al fenomeno di rimpianto sviluppatosi, con alterne vicende, a partire dagli anni Novanta del XX secolo. È il pensiero che viene dai trentenni di oggi, delusi dai venti ultimi anni di gestione del potere, non filo-putiniani, non filo-sovietici ma che hanno posto una netta discriminazione tra ciò che è stata l’Unione Sovietica (Sovetskij Sojuz) e ciò che ha invece rappresentato il potere sovietico (sovetskaja vlast’).”
In questo viaggio sui generis alla scoperta dell’URSS non mancano veri e propri topos della cultura sovietica, ereditati dall’epoca zarista, celebrati anche in letteratura. È il caso della dacia, residenza fuori città in auge sin dai tempi di Pietro il Grande – “lo zar prese a offrire in omaggio ai suoi collaboratori più stretti (con il passaggio del potere alla zarina Caterina II questo costume si estese ai famosi favoriti) residenze fuori città come ringraziamento per i servizi resi allo Stato” – che ispirò il racconto di Anton Chekhov, poi elaborato per il teatro, Tragico suo malgrado: Storia di vita in dacia .
Luogo sovietico per antonomasia è invece la stazione della metropolitana. “Il progetto partì nel 1931 e da quel momento, assieme al cantiere reale, prese le mosse il parallelo procedimento di costruzione del mito. Secondo il principio dell’opera d’arte totale ogni ambito della cultura e dell’esistenza avrebbe preso parte all’emozionante realizzazione: musica, architettura, cartellonistica, giornali e cinema”. Se ancora oggi le stazioni del metrò di Mosca, San Pietroburgo, Kyiv e Kharkiv, presentano mosaici che costituiscono vere e proprie opere d’arte socialista, storicamente queste realizzazioni furono funzionali nei terribili anni Trenta – quelli di Holodomor e Purghe – alla costruzione del mito di Stalin.
“Per tutti l’idolo della nuova attrazione moscovita fu uno solo: il compagno Stalin. I manifesti dell’epoca bene segnalano lo stato di cose. Lo slogan trionfante fu: Est’ metro!, <<il metro esiste!>>, tangibile conferma e indiscutibile garanzia della bontà del regime e delle sue scelte. Ma ancora più significativo è che l’immagine di Stalin vinca su tutte le altre e che, sul vessillo rosso stilizzato, la scritta celebri lui come ideatore, realizzatore e deus ex machina di tutta l’operazione”
Gian Piero Piretto, Indirizzo: Unione Sovietica. 25 luoghi di un altro mondo Sironi Editore, Milano 2015